Quando si seppe della sua morte, il Padre generale della Compagnia di Gesù scrisse: “la divina bontà ha tagliato il filo dei piani del padre Francesco. Dio glieli aveva suggeriti; Dio tuttavia aveva disposto che morisse prima, a imitazione di Cristo, come chicco di grano seminato proprio alle porte della Cina; toccherà quindi ad altri raccogliere frutti più abbondanti”.
Francesco Saverio (1506-1552) studiò a Parigi e vi divenne dottore incontrandovi Pietro Fabro e poi Ignazio di Loyola: in seguito, prese parte in Roma alle deliberazioni sulla fondazione della Compagnia di Gesù e nel marzo 1540 partì per l’India. Giunto a Goa iniziò il suo apostolato, rapido e attivissimo, a Manaar, nel Travancore, fino ad Amboina e a Halmahera; da Malacca, nel 1548, partì per il Giappone, sbarcando nell’agosto a Kagoshima. Dopo qualche difficoltà, ottenne anche qui numerose conversioni. Ma, richiamato in India (1551), pensò invece di recarsi in Cina, chiusa agli stranieri. Nell’isola di Sanciano, mentre attendeva l’occasione di tornare sul continente, si ammalò e morì.1 Ci fa piacere parlare di lui in questo periodo in cui, sembra, la Santa Sede è addivenuta ad un accordo che forse farà respirare meglio la Chiesa in Cina, finora abbastanza perseguitata.
Parliamo di un pioniere della Chiesa in Asia, un grande evangelizzatore. Cosa ha da dire a noi, cristiani del XXI secolo, la figura di San Francesco Saverio? Intanto, il suo metodo missionario, che inaugurò quello seguito dai suoi confratelli e diede origine alle lunghe e tenaci discussioni sui “riti cinesi” e “malabarici”, appare oggi, agli occhi dello storico, una notevole anticipazione dei metodi moderni. Ma c’è di più, e qualcosa di meno legato alle contingenze storiche nella vita di questo santo. Ciò che mosse Saverio fu l’urgenza di evangelizzare: un verbo che oggi dovremmo considerare centrale nell’azione cristiana, e non come una elegante frangia per decorare un’opera di promozione sociale ben fatta nel nome della solidarietà.
Il mondo, lo sappiamo, apprezza non di rado quanto i fedeli fanno nel concreto per aiutare i più deboli della terra, in Asia come qui nella nostra città o nel nostro quartiere, anche al netto delle recenti ostilità, spesso di natura ideologica che in questi ultimissimi tempi hanno macchiato l’immagine delle ONG nel nostro Paese. Ma i molti che apprezzano nel contempo spesso si urtano, si irritano, e magari apertamente irridono l’annuncio evangelico nei suoi aspetti meno “politicamente corretti”, quando si parla appunto di salvezza, di vita eterna, di giudizio dopo la morte, di salvezza delle anime. E guai ancora maggiori attendono chi da questa fede trae una morale di vita seria, casta – perché no? – moderata e improntata al rispetto dell’autentica dignità umana.
Di fronte a questa innegabile tendenza, fortemente alimentata nei mezzi di comunicazione, ben lieti anche all’occorrenza di distorcere il magistero papale, l’intera vita e specialmente la morte di questo santo sembrano ricordarci le parole di San Pietro ai giudici di Antiochia: “Bisogna obbedire a Dio, piuttosto che agli uomini”.
San Francesco Saverio ha obbedito a Dio, piuttosto che agli uomini: dopo una vita interamente consumata, alla lettera, al servizio del Vangelo, muore solo, con un solo compagno, senza riuscire ad entrare nel continente cinese, agognata meta missionaria. Rimase a terra, aspettando una giunca che non sarebbe mai arrivata, con il suo povero abito e pochi libri come tutto suo avere. Ad un amico il Santo aveva scritto: “Pregate molto per noi, perché corriamo grande pericolo di essere imprigionati. Tuttavia, già ci consoliamo anticipatamente al pensiero che è meglio essere prigionieri per puro amor di Dio, che essere liberi per avere voluto fuggire il tormento e la pena della croce”.
Saverio muore come Mosè, in vista di quella terra promessa alla propagazione della fede, senza potervi mettere piede. Sofferenza, povertà, abbandono, fallimento: sono gli stessi elementi di un’altra Passione, di Colui che disse “se il chicco di grano caduto in terra non muore, rimane solo: se invece muore, produce molto frutto”.
Pare che S. Ignazio avrebbe preferito che, invece di pagare di persona, fosse rimasto ad amministrare le missioni dell’India, e avesse inviato a dissodare il terreno altri confratelli. La lettera che gli scrisse per richiamarlo, almeno provvisoriamente, in Europa, giunse quando egli era già morto.
Dichiarato Santo nel 1622, fu in seguito proclamato Patrono dell’Oriente, dell’Opera della Propagazione della Fede e, con Santa Teresa di Lisieux, delle Missioni.
Francesco Saverio (1506-1552) studiò a Parigi e vi divenne dottore incontrandovi Pietro Fabro e poi Ignazio di Loyola: in seguito, prese parte in Roma alle deliberazioni sulla fondazione della Compagnia di Gesù e nel marzo 1540 partì per l’India. Giunto a Goa iniziò il suo apostolato, rapido e attivissimo, a Manaar, nel Travancore, fino ad Amboina e a Halmahera; da Malacca, nel 1548, partì per il Giappone, sbarcando nell’agosto a Kagoshima. Dopo qualche difficoltà, ottenne anche qui numerose conversioni. Ma, richiamato in India (1551), pensò invece di recarsi in Cina, chiusa agli stranieri. Nell’isola di Sanciano, mentre attendeva l’occasione di tornare sul continente, si ammalò e morì.1 Ci fa piacere parlare di lui in questo periodo in cui, sembra, la Santa Sede è addivenuta ad un accordo che forse farà respirare meglio la Chiesa in Cina, finora abbastanza perseguitata.
Parliamo di un pioniere della Chiesa in Asia, un grande evangelizzatore. Cosa ha da dire a noi, cristiani del XXI secolo, la figura di San Francesco Saverio? Intanto, il suo metodo missionario, che inaugurò quello seguito dai suoi confratelli e diede origine alle lunghe e tenaci discussioni sui “riti cinesi” e “malabarici”, appare oggi, agli occhi dello storico, una notevole anticipazione dei metodi moderni. Ma c’è di più, e qualcosa di meno legato alle contingenze storiche nella vita di questo santo. Ciò che mosse Saverio fu l’urgenza di evangelizzare: un verbo che oggi dovremmo considerare centrale nell’azione cristiana, e non come una elegante frangia per decorare un’opera di promozione sociale ben fatta nel nome della solidarietà.
Il mondo, lo sappiamo, apprezza non di rado quanto i fedeli fanno nel concreto per aiutare i più deboli della terra, in Asia come qui nella nostra città o nel nostro quartiere, anche al netto delle recenti ostilità, spesso di natura ideologica che in questi ultimissimi tempi hanno macchiato l’immagine delle ONG nel nostro Paese. Ma i molti che apprezzano nel contempo spesso si urtano, si irritano, e magari apertamente irridono l’annuncio evangelico nei suoi aspetti meno “politicamente corretti”, quando si parla appunto di salvezza, di vita eterna, di giudizio dopo la morte, di salvezza delle anime. E guai ancora maggiori attendono chi da questa fede trae una morale di vita seria, casta – perché no? – moderata e improntata al rispetto dell’autentica dignità umana.
Di fronte a questa innegabile tendenza, fortemente alimentata nei mezzi di comunicazione, ben lieti anche all’occorrenza di distorcere il magistero papale, l’intera vita e specialmente la morte di questo santo sembrano ricordarci le parole di San Pietro ai giudici di Antiochia: “Bisogna obbedire a Dio, piuttosto che agli uomini”.
San Francesco Saverio ha obbedito a Dio, piuttosto che agli uomini: dopo una vita interamente consumata, alla lettera, al servizio del Vangelo, muore solo, con un solo compagno, senza riuscire ad entrare nel continente cinese, agognata meta missionaria. Rimase a terra, aspettando una giunca che non sarebbe mai arrivata, con il suo povero abito e pochi libri come tutto suo avere. Ad un amico il Santo aveva scritto: “Pregate molto per noi, perché corriamo grande pericolo di essere imprigionati. Tuttavia, già ci consoliamo anticipatamente al pensiero che è meglio essere prigionieri per puro amor di Dio, che essere liberi per avere voluto fuggire il tormento e la pena della croce”.
Saverio muore come Mosè, in vista di quella terra promessa alla propagazione della fede, senza potervi mettere piede. Sofferenza, povertà, abbandono, fallimento: sono gli stessi elementi di un’altra Passione, di Colui che disse “se il chicco di grano caduto in terra non muore, rimane solo: se invece muore, produce molto frutto”.
Pare che S. Ignazio avrebbe preferito che, invece di pagare di persona, fosse rimasto ad amministrare le missioni dell’India, e avesse inviato a dissodare il terreno altri confratelli. La lettera che gli scrisse per richiamarlo, almeno provvisoriamente, in Europa, giunse quando egli era già morto.
Dichiarato Santo nel 1622, fu in seguito proclamato Patrono dell’Oriente, dell’Opera della Propagazione della Fede e, con Santa Teresa di Lisieux, delle Missioni.
Alberto Hermanin
1 Una curiosità significativa: Santa Francesca Saverio Cabrini decise di chiamarsi in questo modo, aggiungendo al proprio nome di battesimo quello di “Saverio”, in onore del santo, quando pronunciò i voti religiosi dopo aver fondato le Suore missionarie del Sacro Cuore. Come Francesco Saverio, anche lei voleva dedicarsi all’evangelizzazione dell’Estremo Oriente ma poi divenne missionaria negli Stati Uniti, dove la situazione degli immigrati italiani era molto dura.
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