Saper fare e memoria

Quando parliamo del rapporto corrente tra arte e fede, tendiamo in primo luogo a evocare lo statuto dell’immagine e il suo legame con il divino ... (Bianca Hermanin)

Quando parliamo del rapporto corrente tra arte e fede, tendiamo in primo luogo a evocare lo statuto dell’immagine e il suo legame con il divino. Innumerevoli sono le teorie filosofiche e antropologiche sottese a questo legame, specialmente per i cristiani: nonostante le diverse forme di iconoclastia che a più riprese hanno animato la storia del cristianesimo, la Chiesa Cattolica e le Chiese separate hanno in definitiva difeso non solo la liceità dell’immagine sacra, ma anche, in qualche misura, la sua necessità nell’ambito del culto e della trasmissione della fede, fondata sul mistero dell’incarnazione. Verbum caro factum est: come potremmo non raffigurarlo in immagini?

La questione è tanto più urgente alla luce di una contemporaneità in cui l’immagine sovrasta compulsivamente il mondo della comunicazione verbale, con tutti i mezzi mirabolanti che la tecnologia le offre per essere veicolata, non di rado a scapito dell’ordine e della logica che impone il discorso, scritto o orale. Il potere evocativo e persuasivo dell’immagine è tale che su di essa, nell’ultimo secolo, si è fondata una vera e propria “scienza” (Bildwissenschaft) che ha visto e vede al lavoro filosofi, scienziati, storici dell’arte e gli stessi artisti: basti pensare alle celeberrime “icone” pop di Andy Warhol. Nel modo ironico – meglio, spudorato – che gli è proprio, l’artista americano con le sue Marylin Monroe e le sue scatole di pomodori Campbell’s in serie ha negato una volta per tutte all’immagine artistica quel carattere che i cristiani avevano definito “sacro” e che i filosofi dell’estetica, da Kant a Benjamin, associavano ai misteri del Bello e del Vero insiti nella creazione unica e irripetibile di un manufatto umano.
E non sembra che l’arte contemporanea abbia abbandonato il carattere ludico, talvolta sarcastico, talvolta innocente, che aveva assunto nell’Occidente del libero mercato dopo la Seconda Guerra mondiale: piuttosto, da quel tempo, ciò che è cambiata è la nostra percezione del mondo. Non è necessaria, infatti, una profonda riflessione per intuire quanto le promesse di benessere del capitalismo avanzato – premesse essenziali alla spensierata vacuità di alcune opere contemporanee – si siano infrante su ‘effetti collaterali’ gravissimi: la povertà in aumento, un pianeta malato, la consapevolezza che un’eventuale guerra, al momento, potrebbe risultare di gran lunga più catastrofica di tutto ciò che l’umanità ha sperimentato finora. Così, sebbene l’ordinaria amministrazione dei media, incluso il medium artistico, contrapponga diversi miti di progresso ai mali dei poveri e ai mali del pianeta, i cristiani non possono non tenere conto di questi ultimi, mentre cercano di conformare al Vangelo la propria vita nel mondo.

Come dunque, i cristiani possono intendere l’arte? Quale sale, quale luce, può portare la nostra fede su un “fatto sociale” come l’arte, il cui mercato oggi pullula di prodotti di consumo e di esperimenti spettacolari? Quale concetto possono farsi i cristiani dell’arte, sia come fruitori, sia eventualmente come artisti?
Un primo spunto per provare a rispondere a questa domanda può venire dalla storia dell’arte. Al netto di mille e mille esperienze artistiche più o meno significative e più o meno di valore, una prima risposta può venire dalla ‘nostra’ storia dell’arte. Prendiamo brevemente il caso del nostro primo santuario: la Basilica di San Pietro.

La chiesa, che oggi ci appare conclusa entro il magnifico colonnato berniniano, ha subito più di ogni altra i cambiamenti radicali del gusto e delle tecniche che si sono avvicendati nei duemila anni di storia del cristianesimo. Fondata nel IV secolo dall’imperatore Costantino sulla venerata tomba di San Pietro, la Basilica avrebbe continuato a vivere per quasi milleduecento anni; i papi si prodigarono nel mantenerla e nell’arricchirla.

Poi, il 18 aprile del 1506, papa Giulio II della Rovere (1503-1516) inaugurò la fondazione di una nuova Basilica Divi Petri, affidandone la costruzione a Donato Bramante.
La “terribilissima” impresa – per usare le parole di Vasari – diede inizio a uno dei cantieri più lunghi e importanti della storia. La Basilica di San Pietro che noi conosciamo fu consacrata solo nel 1626, a oltre un secolo dall’inizio dei lavori. Dopo il Sacco di Roma del 1527, i lavori si arrestarono a tal punto che i nuovi muri della Fabbrica somigliavano a monumentali e solenni rovine.
Fu Paolo III Farnese (1535-1549) a impostare il nuovo corso di San Pietro: egli fece in modo che, anche allo stato di cantiere, la vita della Basilica perdurasse: perciò, nel settore occidentale della basilica ripresero i lavori di costruzione, mentre nel settore orientale le cinque navate della Basilica costantiniana, ancora in piedi, furono separate dal cantiere con un muro divisorio; così, in questo troncone superstite della Basilica antica, il clero di san Pietro poté trarre in salvo alcuni dei manufatti travolti dalla demolizione; qui, presso i numerosi altari distribuiti lungo le pareti e le colonne, continuarono ad essere assolte le funzioni liturgiche.
Fu sempre Paolo III, nel 1546, a scegliere l’architetto che più di ogni altro determinò le sorti del nuovo San Pietro: Michelangelo Buonarroti. Chi visse nell’Europa di quel tempo forse percepì nel cantiere michelangiolesco di San Pietro un qualche segno aurorale per la Chiesa di Roma; mentre i vescovi a Trento stabilivano i canoni della Riforma, sui quattro piloni della crociera e sui nuovi bracci del transetto, rivestiti in travertino, cominciò a profilarsi il tamburo della cupola, con le sue doppie paraste, i capitelli corinzi, i conci perfettamente squadrati dell’attico, e le finestre che ancora adesso, all’ora del tramonto, filtrano i raggi del sole morente da occidente a oriente, da un punto all’altro del colossale diametro dell’edificio.

Michelangelo morì nel 1564; Seguì una nuova fase che Christof Thoenes, uno dei più eminenti studiosi della storia costruttiva della Basilica, definisce la fase della “rivolta della memoria”. Mentre il cantiere procedeva un umile chierico, di nome Tiberio Alfarano, cominciò a tracciare una pianta della Basilica antica, parzialmente demolita ormai da sessant’anni. Alfarano eseguì la sua pianta sulla base delle testimonianze dei canonici più anziani, che l’avevano vista prima della demolizione, e sulla base delle tracce del vecchio edificio che ancora rimanevano disseminate per il cantiere del nuovo. Con l’aiuto di queste fonti, il chierico non si limitò al disegno in pianta delle antiche murature, ma ricostruì anche la disposizione dei numerosissimi oratori della Basilica antica, segnati in pianta attraverso una minuziosa legenda. Nei suoi scritti, Alfarano specifica anche l’obiettivo che sovrintese al suo lavoro: la pianta doveva servire da monito ai costruttori della Basilica nuova, affinché trovassero il modo, una volta ultimata la costruzione del nuovo edificio, di stabilire degli spazi adatti a tutti gli oratori antichi, per permettere la continuità della venerazione delle reliquie e delle sacre immagini.
Quando, nel 1605, Paolo V Borghese stabilì di demolire il troncone della Basilica antica per costruire la facciata attuale, i canonici della Basilica perseguirono lo stesso obiettivo, avvalendosi della pianta di Alfarano e della sua opera di memoria: la Basilica di san Pietro oggi custodisce un numero impressionante di altari e di reliquie; e nelle Grotte, sotto il livello del pavimento attuale, sono ancora conservati alcuni dei manufatti – monumenti sepolcrali, immagini e iscrizioni – salvati nella demolizione della Basilica.

La storia di San Pietro è particolarmente gustosa per chiunque si interessi d’arte: gli appassionati dell’arte medievale, infatti, deprecano la distruzione dell’edificio costantiniano; d’altro canto, chi ha dedicato i suoi studi al Rinascimento, e in particolare all’architettura di Michelangelo, non può fare a meno di notare come la pianta longitudinale dell’edificio odierno, concepita per permettere il culto presso i diversi altari, sia stato un tradimento del progetto del grande fiorentino, riducendo drammaticamente la visibilità della cupola dalla piazza e impedendo la leggibilità dell’architettura all’interno a causa della ridondante profusione di immagini e di monumenti sepolcrali. Ma torniamo all’interrogativo iniziale. Come la storia di San Pietro può riguardare il nostro concetto dell’arte, come credenti?

Innanzitutto, la storia della Basilica di san Pietro chiama in causa la crucialità della committenza. Sarebbe ingenuo affermare che gli obiettivi dei committenti di san Pietro siano stati “puri” e volti al solo scopo di soddisfare i bisogni spirituali dei fedeli. L’imperatore Costantino non era neanche battezzato quando cominciò a far sbancare il colle Vaticano, e una buona parte della letteratura ritiene che papa Giulio II abbia preso la fatale decisione di demolire la Basilica costantiniana e di fondarne una più ampia per poter inserire in questa, presso il presbiterio, il suo spettacolare sepolcro, affidato a Michelangelo e solo parzialmente realizzato, oggi a San Pietro in Vincoli. Ma l’interesse tutto mondano dei committenti non nega la crucialità della loro iniziativa: e vale la pena notare che il desiderio di gloria che animò le imprese di Costantino e Giulio II può dirsi oggi appagato, non tanto con riferimento ai loro nomi, quanto a ciò che effettivamente è stato realizzato dalle moltitudini di architetti, musivari, scalpellini e muratori che costruirono e decorarono la Basilica di San Pietro. È a loro che oggi pensiamo, quando la vediamo.
Questa considerazione chiama in causa anche un certo rapporto di fiducia che i committenti e i costruttori antichi, tutti, hanno nutrito nei confronti delle generazioni future. Il vecchio papa della Rovere sapeva bene che non avrebbe mai visto compiuta la nuova Basilica: ma ciò non impedì di fondarla; l’architetto Bramante, anche lui anziano, sapeva bene che non avrebbe potuto guidare il cantiere se non per pochissimo tempo: tuttavia demolì le murature del transetto e fece sorgere i suoi piloni, convinto che, anche se in modo diverso dalle sue intenzioni, i piloni costruiti avrebbero quantomeno indirizzato i suoi successori verso il completamento del corpo architettonico al quale evidentemente teneva di più, vero fulcro e summa dell’arte rinascimentale, mutuata dagli antichi: la Cupola.
In secondo luogo, le vicende costruttive di San Pietro nell’arco di un secolo, tra lo slancio costruttivo degli architetti più geniali del loro tempo e l’ostinata opera di conservazione attuata dal clero della Basilica, ci rimandano a due condizioni fondanti dell’arte: essa è saper fare, ed è memoria. È saper fare, perché qualsiasi considerazione astratta di ordine estetico sulla natura dell’arte e sui suoi mezzi espressivi non può fare a meno di confrontarsi con la concreta necessità del mettersi al lavoro, di compiere infiniti errori e ripensamenti, e di sottomettere comunque la propria opera al giudizio arbitrario dei posteri. È memoria, perché non c’è creazione umana che possa prescindere da ciò che abbiamo già visto, udito, imparato; anche gli echi lontani e solo immaginati della storia e dei suoi protagonisti contribuiscono alla formazione della memoria: nella maniera più varia, e in modo più lampante nel caso di San Pietro, la consapevolezza del passato condiziona, e arricchisce le sorti del presente in atto.
Quanto detto sinora potrebbe forse farci pensare a un atteggiamento necessariamente conservatore rispetto al problema dell’arte, in rapporto alla fede, nel momento storico che stiamo vivendo: facciamo riferimento alle grandi opere del passato per rimpiangerle, per provare a rievocarne lo spirito in un’epoca oscura? Non è così.

Piuttosto, lo studio dell’arte del passato – e di un particolare esemplare che ci interessa tutti, come cattolici – sprona e stimola la nostra libertà nel presente, sia come fruitori che come eventuali artisti. In definitiva, infatti, la storia millenaria di san Pietro ci riporta a un principio di realtà: l’arte non è solo immagine, né è solo spettacolo.
Il primato dell’immagine, a cui affidiamo oggi qualunque tipo di comunicazione e qualunque annuncio programmatico, appare in effetti molto ridotto per chi, anche solo come semplice curioso, o devoto, provi a studiare San Pietro e tenga presente la prospettiva della durata con la quale la Basilica fu concepita, realizzata, e celebrata nelle opere di memoria dei suoi scrittori. Studiando San Pietro, le immagini spettacolari ed effimere veicolate dalla tecnologia e dalla pletora di interessi che provano a stimolarci ogni giorno appaiono come il battito d’ali di una farfalla, mentre sullo sfondo si dispiegano la mole del lavoro di migliaia di mani, le masse dei pellegrini che quel lavoro intese onorare, e le masse degli uomini e delle donne che ancora oggi vi si affacciano.
A cosa ci chiama la ‘nostra’ arte oggi? Tra mille e altrettanto preziosi manufatti, San Pietro, con i vistosi paradossi che ne hanno contraddistinto la storia, con la sua architettura impareggiabile e il suo ininterrotto legame col passato, ci ricorda che l’arte, sia ‘subita’, che ‘agita’, è il frutto della memoria e del lavoro dell’uomo: la memoria chiama in causa la nostra capacità di guardare; il lavoro chiama in causa la nostra capacità di immaginare. In altre parole, San Pietro – con la storia dell’arte tutta – agisce come un pungolo alla nostra libertà.

Bianca Hermanin
(Studente di dottorato all’Università degli Studi di Roma Tre)


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