Se dovessimo dare un titolo a questo brano, potrebbe essere “Non basta essere fratelli”. In queste pagine il Servo di Dio Guglielmo Giaquinta, con una argomentazione forse fin troppo accademica, spiega la scelta di utilizzare l’espressione “fraternità spirituale” con l’esigenza di far emergere che la fraternità cristiana è sì un risultato disatteso, ma non per questo un obiettivo al quale rinunciare. Il motivo è che non si può essere cristiani sul serio senza vivere la fraternità fino in fondo. Le parole di Giaquinta hanno il sapore di un duro e sofferto esame di coscienza, ma anche della speranza che si possa realizzare l’utopia della fraternità, il cui primo passo è la santità.
Quando diciamo che la struttura interna del cristianesimo è data dalla fraternità, che i primi cristiani si trattavano da fratelli e che anche oggi dovremmo fare lo stesso, corriamo il rischio di riempirci la bocca di belle parole a cui di fatto non corrisponde nulla.
Se Carlo Marx nel 1847 iscrivendosi alla Lega dei Comunisti cercò e riuscì a far sostituire al motto programmatico della Lega: “Tutti gli uomini sono fratelli”, l’altra espressione: “Proletari di tutti i paesi unitevi” aveva le sue buone ragioni.
Certamente egli manifestava così quell’ateismo attinto nell’ambiente familiare e accresciutosi in lui con il tempo; però è anche vero che le nazioni cristiane e perfino cattoliche, come la Francia, non davano certo un autentico esempio di fraternità con lo sfruttamento sistematico e inumano dei lavoratori, in particolare delle donne e dei bambini.
È chiaro quindi che a Marx non poteva interessare il termine fraternità che sottolineava pazienza e condiscendenza, mentre per lui era essenziale sottolineare quello di “proletario” e cioè di uomo capace di reagire alle ingiustizie di cui era vittima.
L’obiezione forse si potrebbe risolvere notando che una rondine non fa primavera. Il guaio è che nel nostro caso era ed è veramente raro trovare chi prenda sul serio il termine di fraternità, mentre la massa degli uomini e perfino dei cristiani, cattolici compresi, pur chiamandosi fratelli si ostacolano a vicenda, quando non arrivano a fare di peggio.
Se durante venti secoli l’egoismo, l’odio, la vendetta, la guerra hanno imperato sovrani, vuol dire che il concetto di fraternità non ha trovato accoglienza e tanto meno cittadinanza universale.
Senza voler ripetere qui quanto già scritto altrove circa il minimismo spirituale e il cristianesimo domenicale dobbiamo osservare che purtroppo ci si può dire, sentire e, in un certo senso, essere cristiani senza esercitare fino in fondo una autentica fraternità.
Questo perché tale parola è stata ridotta al rango di sentimento che può essere più o meno intenso ma che, in ogni caso, si esprime più che a sufficienza quando si sia fatta un po’ di elemosina a chi si chiama fratello.
Il significato di fraternità, quale descritto nelle pagine precedenti, nella vita di molti cristiani è stato praticamente annullato, in quanto ormai privo di ogni qualsiasi efficacia sociale.
L’unica area in cui ha ancora conservato un qualche valore è quello della virtù strettamente personale, dell’ambito familiare, pur se con tutte le restrizioni dell’egoismo, e in quello degli istituti religiosi consacrati alla carità. La società, in quanto tale, ha invece smarrito il senso della fraternità.
Ma tutto questo è giustificabile, almeno in campo cattolico?
Quanto scriveremo adesso circa la “Fraternità spirituale” ci mostrerà l’assurdità della situazione nella quale siamo caduti.
Premettiamo subito che il termine “fraternità spirituale” è puramente convenzionale e l’abbiamo scelto per porci in antitesi con la situazione di “fraternità diluita” in cui possono cadere e, di fatto, troppo spesso cadono i cristiani.
Con questo termine intendiamo dunque cogliere ed esprimere quel particolare aspetto del cristianesimo che altrove abbiamo chiamato “dialettica del massimo” e che può racchiudersi in questi brevi enunciati:
– Dio ci ha amato al massimo;
– Egli per redimerci ha scelto la via della croce del Figlio che esprime al massimo tale suo amore;
– Cristo, seguendo la strada del Padre, ci ha anche Egli amati al massimo;
– Dio lo vuole che noi Lo riamiamo al massimo;
– Cristo ci ha insegnato che l’amore al Padre e agli uomini, nostri fratelli, deve essere massimo.
Se Carlo Marx nel 1847 iscrivendosi alla Lega dei Comunisti cercò e riuscì a far sostituire al motto programmatico della Lega: “Tutti gli uomini sono fratelli”, l’altra espressione: “Proletari di tutti i paesi unitevi” aveva le sue buone ragioni.
Certamente egli manifestava così quell’ateismo attinto nell’ambiente familiare e accresciutosi in lui con il tempo; però è anche vero che le nazioni cristiane e perfino cattoliche, come la Francia, non davano certo un autentico esempio di fraternità con lo sfruttamento sistematico e inumano dei lavoratori, in particolare delle donne e dei bambini.
È chiaro quindi che a Marx non poteva interessare il termine fraternità che sottolineava pazienza e condiscendenza, mentre per lui era essenziale sottolineare quello di “proletario” e cioè di uomo capace di reagire alle ingiustizie di cui era vittima.
L’obiezione forse si potrebbe risolvere notando che una rondine non fa primavera. Il guaio è che nel nostro caso era ed è veramente raro trovare chi prenda sul serio il termine di fraternità, mentre la massa degli uomini e perfino dei cristiani, cattolici compresi, pur chiamandosi fratelli si ostacolano a vicenda, quando non arrivano a fare di peggio.
Se durante venti secoli l’egoismo, l’odio, la vendetta, la guerra hanno imperato sovrani, vuol dire che il concetto di fraternità non ha trovato accoglienza e tanto meno cittadinanza universale.
Senza voler ripetere qui quanto già scritto altrove circa il minimismo spirituale e il cristianesimo domenicale dobbiamo osservare che purtroppo ci si può dire, sentire e, in un certo senso, essere cristiani senza esercitare fino in fondo una autentica fraternità.
Questo perché tale parola è stata ridotta al rango di sentimento che può essere più o meno intenso ma che, in ogni caso, si esprime più che a sufficienza quando si sia fatta un po’ di elemosina a chi si chiama fratello.
Il significato di fraternità, quale descritto nelle pagine precedenti, nella vita di molti cristiani è stato praticamente annullato, in quanto ormai privo di ogni qualsiasi efficacia sociale.
L’unica area in cui ha ancora conservato un qualche valore è quello della virtù strettamente personale, dell’ambito familiare, pur se con tutte le restrizioni dell’egoismo, e in quello degli istituti religiosi consacrati alla carità. La società, in quanto tale, ha invece smarrito il senso della fraternità.
Ma tutto questo è giustificabile, almeno in campo cattolico?
Quanto scriveremo adesso circa la “Fraternità spirituale” ci mostrerà l’assurdità della situazione nella quale siamo caduti.
Premettiamo subito che il termine “fraternità spirituale” è puramente convenzionale e l’abbiamo scelto per porci in antitesi con la situazione di “fraternità diluita” in cui possono cadere e, di fatto, troppo spesso cadono i cristiani.
Con questo termine intendiamo dunque cogliere ed esprimere quel particolare aspetto del cristianesimo che altrove abbiamo chiamato “dialettica del massimo” e che può racchiudersi in questi brevi enunciati:
– Dio ci ha amato al massimo;
– Egli per redimerci ha scelto la via della croce del Figlio che esprime al massimo tale suo amore;
– Cristo, seguendo la strada del Padre, ci ha anche Egli amati al massimo;
– Dio lo vuole che noi Lo riamiamo al massimo;
– Cristo ci ha insegnato che l’amore al Padre e agli uomini, nostri fratelli, deve essere massimo.
Partendo da questi principi è facile vedere come tutti noi siamo chiamati ad amare Dio con tutta la potenza del nostro amore ed i nostri fratelli con la massima donazione possibile.
È la dottrina della vocazione alla santità che riguarda tutti i cristiani e investe tutta la loro vita personale, collettiva e sociale.
Da queste brevi annotazioni segue che la fraternità tra i cristiani non può essere un vago sentimento ma deve mettersi sul piano massimalista, giacché essi sono tutti chiamati a realizzare insieme il loro cammino di santità verso il Padre. Quando la fraternità diventi coscienza dei profondi e intimi legami che uniscono i chiamati all’amore totale verso Dio e si trasformi in una donazione concreta e generosa ai fratelli, allora parliamo di “fraternità spirituale”.
Qualcuno potrà obiettare che la differenza tra fraternità cristiana e spirituale è fittizia, giacché teoricamente ogni cristiano dovrebbe vivere la fraternità spirituale. Il ragionamento in astratto è vero; urta però contro la realtà che ci presenta la stragrande maggioranza dei cristiani che sono lontani dalla concezione della fraternità spirituale.
Ma oltre al dato di fatto c’è un’altra osservazione ancora più grave.
È vero che la risposta totalitaria dell’uomo è l’oggetto del desiderio più vivo di Dio e che Egli tutti ha chiamato a tale amore completo, ma possiamo dire che chi, di fatto, non tende al massimo o si contenta del minimo, cercando però di non offendere gravemente Dio e i fratelli, non è cristiano?
Nessuno se la sentirà mai di poterlo affermare. Tra l’altro perché Dio ci chiama al massimo e lo desidera immensamente da noi, ma come sviluppo di un rapporto di grazia che non viene a cessare solo perché esso non si sviluppa e rimane rachitico.
Chi vive in grazia e cioè non commette peccati ma non sviluppa le sue possibilità di amore, non per questo perde lo stato di grazia e cade in peccato. Questa osservazione, che è poi di S. Tommaso, non giustifica ma spiega l’esistenza di un cristianesimo minimista, di una fraternità cristiana minimista; spiega anche perché abbiamo presentato con il nome di “fraternità spirituale” lo stato ideale di amore verso i fratelli proveniente dall’amore massimo verso Dio che tutti gli uomini dovrebbero avere.
E l’esigenza di questa precisazione appare anche per un altro motivo. L’osservazione di S. Tommaso, che si riferisce alla situazione di fatto di troppi cristiani, ha portato non solo ad una prassi minimista ma ad una morale riduzionista.
Non dimentichiamo che alla fine del 1500, teologi di grande autorità, per esempio Suarez, parlarono di due generi di cristiani: quelli che si fermavano allo stato mediocre con carità minima (era uno stato legittimo) e quelli che tendevano allo stato di perfezione con carità sempre crescente, ma che era di consiglio. Questo dualismo tra laici, che si fermavano alla morale, e consacrati che si regolavano con l’ascetica, ha pesato duramente sulla cristianità e ha determinato l’individualismo che è tanto presente nei manuali preconciliari.
Tale divisione, purtroppo ancora in atto presso la grande maggioranza dei fedeli, ci obbliga a insistere sulla distinzione tra fraternità cristiana e spirituale.
Questo per impedire l’istintivo processo di riduzione della fraternità al minimo indispensabile; così come già avviene in tema di santità in cui troppo spesso tutto viene ridotto alla semplice grazia santificante. Noi invece affermiamo: come la grazia santificante è l’inizio della santità che è appunto la grazia sviluppata al massimo, così la fraternità cristiana è l’inizio di quella spirituale che è la fraternità sviluppata al massimo.
Come possiamo e dobbiamo parlare di santità così possiamo e dobbiamo parlare di fraternità spirituale. In una visione utopica di un cristianesimo fatto solo di santi, nella supposizione cioè che tutti i cristiani di fatto diventassero santi, verrebbe a cadere la distinzione tra la fraternità cristiana e quella spirituale.
Poiché tuttavia tale sogno non potrà essere pienamente realizzato in questo mondo, è necessario accettare e mantenere la predetta distinzione e continuare a parlare di fraternità spirituale.
È la dottrina della vocazione alla santità che riguarda tutti i cristiani e investe tutta la loro vita personale, collettiva e sociale.
Da queste brevi annotazioni segue che la fraternità tra i cristiani non può essere un vago sentimento ma deve mettersi sul piano massimalista, giacché essi sono tutti chiamati a realizzare insieme il loro cammino di santità verso il Padre. Quando la fraternità diventi coscienza dei profondi e intimi legami che uniscono i chiamati all’amore totale verso Dio e si trasformi in una donazione concreta e generosa ai fratelli, allora parliamo di “fraternità spirituale”.
Qualcuno potrà obiettare che la differenza tra fraternità cristiana e spirituale è fittizia, giacché teoricamente ogni cristiano dovrebbe vivere la fraternità spirituale. Il ragionamento in astratto è vero; urta però contro la realtà che ci presenta la stragrande maggioranza dei cristiani che sono lontani dalla concezione della fraternità spirituale.
Ma oltre al dato di fatto c’è un’altra osservazione ancora più grave.
È vero che la risposta totalitaria dell’uomo è l’oggetto del desiderio più vivo di Dio e che Egli tutti ha chiamato a tale amore completo, ma possiamo dire che chi, di fatto, non tende al massimo o si contenta del minimo, cercando però di non offendere gravemente Dio e i fratelli, non è cristiano?
Nessuno se la sentirà mai di poterlo affermare. Tra l’altro perché Dio ci chiama al massimo e lo desidera immensamente da noi, ma come sviluppo di un rapporto di grazia che non viene a cessare solo perché esso non si sviluppa e rimane rachitico.
Chi vive in grazia e cioè non commette peccati ma non sviluppa le sue possibilità di amore, non per questo perde lo stato di grazia e cade in peccato. Questa osservazione, che è poi di S. Tommaso, non giustifica ma spiega l’esistenza di un cristianesimo minimista, di una fraternità cristiana minimista; spiega anche perché abbiamo presentato con il nome di “fraternità spirituale” lo stato ideale di amore verso i fratelli proveniente dall’amore massimo verso Dio che tutti gli uomini dovrebbero avere.
E l’esigenza di questa precisazione appare anche per un altro motivo. L’osservazione di S. Tommaso, che si riferisce alla situazione di fatto di troppi cristiani, ha portato non solo ad una prassi minimista ma ad una morale riduzionista.
Non dimentichiamo che alla fine del 1500, teologi di grande autorità, per esempio Suarez, parlarono di due generi di cristiani: quelli che si fermavano allo stato mediocre con carità minima (era uno stato legittimo) e quelli che tendevano allo stato di perfezione con carità sempre crescente, ma che era di consiglio. Questo dualismo tra laici, che si fermavano alla morale, e consacrati che si regolavano con l’ascetica, ha pesato duramente sulla cristianità e ha determinato l’individualismo che è tanto presente nei manuali preconciliari.
Tale divisione, purtroppo ancora in atto presso la grande maggioranza dei fedeli, ci obbliga a insistere sulla distinzione tra fraternità cristiana e spirituale.
Questo per impedire l’istintivo processo di riduzione della fraternità al minimo indispensabile; così come già avviene in tema di santità in cui troppo spesso tutto viene ridotto alla semplice grazia santificante. Noi invece affermiamo: come la grazia santificante è l’inizio della santità che è appunto la grazia sviluppata al massimo, così la fraternità cristiana è l’inizio di quella spirituale che è la fraternità sviluppata al massimo.
Come possiamo e dobbiamo parlare di santità così possiamo e dobbiamo parlare di fraternità spirituale. In una visione utopica di un cristianesimo fatto solo di santi, nella supposizione cioè che tutti i cristiani di fatto diventassero santi, verrebbe a cadere la distinzione tra la fraternità cristiana e quella spirituale.
Poiché tuttavia tale sogno non potrà essere pienamente realizzato in questo mondo, è necessario accettare e mantenere la predetta distinzione e continuare a parlare di fraternità spirituale.
Passi di fraternità
• “Tutti noi siamo chiamati ad amare Dio con tutta la potenza del nostro amore ed i nostri fratelli con la massima donazione possibile”: come risuonano in me, in noi queste parole?
• “È la dottrina della vocazione alla santità che riguarda tutti i cristiani e investe tutta la loro vita personale, collettiva e sociale”: in che modo la santità può diventare fraternità nella vita personale, collettiva, sociale?
• “È la dottrina della vocazione alla santità che riguarda tutti i cristiani e investe tutta la loro vita personale, collettiva e sociale”: in che modo la santità può diventare fraternità nella vita personale, collettiva, sociale?
a cura di Cristina Parasiliti
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