Il desiderio non è la gioia: ma non c’è gioia senza desiderio

Michele Contel - Che posto ha il desiderio nell’esperienza umana? Alto, a giudicare dal modo in cui ci si affanna per raggiungere una condizione di soddisfazione dei propri desideri. Certo il termine ‘desiderio’ suona ambiguo: troppi e troppo forti sono i richiami della morale e della morale cattolica in particolare ...


Michele Contel (1)

Che posto ha il desiderio nell’esperienza umana? Alto, a giudicare dal modo in cui ci si affanna per raggiungere una condizione di soddisfazione dei propri desideri. Certo il termine ‘desiderio’ suona ambiguo: troppi e troppo forti sono i richiami della morale e della morale cattolica in particolare a desideri proibiti o comunque ad appetiti ritenuti impropri, o perché illeciti in sé o perché frutto di smodatezza ed esagerazione. Forse bisognerebbe parlare di una teoria del desiderio e delle emozioni: gli esseri umani infatti sono naturalmente portatori di desideri e dalle emozioni positive traggono motivi per vivere. Tuttavia, quando troppi desideri sono frustrati, conculcati e negati, gli individui perdono fiducia nella vita e spesso arrivano a negarla.

Del resto il nostro tempo è grandemente afflitto da malattie del desiderio e della “disregolazione” dei piaceri: la sofferenza legata alle malattie da dipendenza (droghe, alcol, gioco d’azzardo patologico, tecnologie digitali) è sotto gli occhi di tutti. Così come alto è il prezzo pagato da molti alla depressione, una condizione patologica oggi diffusa e in parte spiegata dalla rottura dei meccanismi fisiologici del desiderio, meccanismi alla base di una vita buona e degna di essere vissuta.
L’uomo moderno sente come un’ingiustizia e un peso insopportabile la mortificazione che viene da una vita povera di soddisfazioni, depressa e magari afflitta dalle dipendenze. Questo modo di sentire è un sintomo evidentissimo dell’analfabetismo della nostra generazione di fronte alla questione del piacere (o delle passioni, detto con un termine più ambizioso).

Mi sono chiesto perché la dottrina della Chiesa non abbia in tempi recenti un documento programmatico che affronti in radice la questione del piacere nella vita umana. O meglio: di una teoria positiva del piacere-desiderio. Parte della apparente negligenza della teologia morale verso il tema del piacere e del desiderio si può forse attribuire ad un blocco del sentire cattolico a pensare il piacere, forse perché si avverte troppo minaccioso il rischio dell’edonismo. Di fronte al rischio di spiegazioni psicologizzanti ci si rifugia nella risposta classica della tradizione cristiana, in questo solidale con l’etica razionale degli antichi.

La risposta prevede la subordinazione del piacere ad una teoria del desiderio che vuol dire essenzialmente stabilire una gerarchia degli oggetti buoni (desiderabili) rispetto a quelli non desiderabili (oggetti cattivi) e una soluzione pratica nel caso di oggetti misti (quelli che non sono di per sé cattivi) ma che possono diventarlo se ricercati fuori misura e senza moderazione. Nel discorso tradizionale il luogo in cui elaborare in positivo questi temi è il concetto di virtù: con riferimento ai comportamenti sregolati la tradizione esalta la virtù della temperanza che conferisce all’uomo la capacità di dominarsi e di “tenere i desideri e gli istinti nei limiti dell’onesta” (Catechismo della Chiesa Cattolica, 1809).

Opponendosi al vizio, la virtù specifica nella tradizione cristiana una teoria delle passioni (dei desideri) che è una teoria della regolazione degli appetiti, ispirata al principio che accanto all’azione volontaria (la sola cui compete la responsabilità morale in senso stretto), vi siano le buone abitudini che, se adeguatamente perseguite, alimentano la temperanza e l’uso corretto dei beni.

Oggi questa teoria appare ai più screditata e insufficiente. L’esperienza corrente è quella di una grande crisi della capacità di autocontrollo e di moderazione. Mai come oggi le società opulente abbondano di malattie dell’eccesso: eccessi alimentari, di farmaci, di droghe, di sesso, di internet. Tanti, troppi, nostri simili sono preda di comportamenti compulsivi e di una sottile e crescente depressione da incapacità di dare uno sbocco positivo all’esistenza.

Sul piano educativo, genitori ed adulti sembrano impotenti di fronte alle passioni tristi dei nostri figli: incapaci noi di proporre modelli forti, indifferenti loro al richiamo di valori che noi stessi non articoliamo in modo credibile. In questo contesto di Passioni tristi – come titolava un libro di qualche anno fa di Miguel Benasayag e Gérard Schmit – la dipendenza ci appare un flagello più che un vizio, un destino più che un peccato: guardiamo alla sofferenza di queste persone con commiserazione ma non con vera riprovazione. La tristezza in fondo è la cicatrice di una passione sconfitta. E agli sconfitti più di tanto non si fa la morale.

Siamo dunque tutti intristiti senza rimedio?

Per non arrendersi a questa evidenza servono nuove risorse, sia di pensiero sia di tipo emotivo. Nel mercato dei desideri e nella confusione delle priorità in cui tutti sembriamo esposti, bisogna recuperare il concetto della vita buona. Non serve proclamare i valori se noi per primi, ipocritamente o per mancanza di coraggio, proponiamo ai figli ideali forti ma professiamo nei fatti il piccolo cabotaggio della sopravvivenza. Vivere vuol dire anche rischiare, consci del fatto che ogni rischio porta errori e crisi. Ma almeno rischiare apre le finestre sul mondo e pone con forza le domande che contano: perché si soffre, perché l’ingiustizia, perché la morte? Foderati di indifferenza siamo come narcotizzati di fronte alla domanda di aiuto di chi sta vicino. Incapaci di guardare negli occhi chi ci chiede aiuto liquidiamo sbrigativamente il caso invocando l’intervento di specialisti.

Siamo in difetto di umanità: non sgridiamo nessuno perché saremmo repressivi e non curiamo assiduamente i fratelli perché costa fatica. Il mercato ha una ragione per tutto: meglio i divieti. O forse no: meglio il permissivismo assoluto. Il messaggio è: ognuno trovi il suo posto nel bazaar post moderno dei valori, accontentandosi di ciò che, almeno temporaneamente, gli dà sollievo. Se mai vi sarà una vita eterna forse troveremo anche risposta ai garbugli della nostra condizione. Ma nella vita di quaggiù meglio la rassicurante banalità delle morali provvisorie: un colpo al cerchio e uno alla botte, tanto per non deludere né gli intransigenti dei divieti, né gli indulgenti del “tutto è permesso”.

Eppure è urgente ridare, anche da un punto di vista cristiano, forma e dignità al piacere-desiderio della condizione umana. I piaceri, anche quelli che in eccesso sfigurano la dignità umana, sono in realtà espressione del nostro debito di creature verso la vita e, se appresi per quello che devono essere, guide all’esercizio di una libertà responsabile, sono un grande sostegno alla capacità di agire per il meglio. È urgente riscoprire ed aggiornare una grammatica del desiderio che sostenga i processi educativi in una direzione coraggiosa di rigenerazione delle passioni, quelle che danno forma concreta alle aspettative umane non quelle a poco prezzo della remunerazione immediata. Serve una riscrittura dei codici del piacere e una forma aggiornata delle tavole che illustrano le virtù. Ed un sapere che sia sapienza, non semplice collezione di norme tecniche. Questa ripartenza di una sfida educativa e morale che non si riduca a mera raccolta di denunce rancorose e di impossibili intransigenze verso una modernità decaduta e forse senza sbocchi, deve poter volare sulle ali del desiderio. Senza il gusto concreto di ciò che da senso, l’ideale della vita buona si riduce ad istanza astratta, buona forse per generiche esortazioni. Ma non per accendere la passione che dischiude la gioia.

Perché il desiderio non è la gioia. Ma non c’è gioia senza desiderio.


(1) Michele Contel, filosofo, è segretario generale dell’Osservatorio Permanente sui Giovani e l’Alcool di Roma. Si occupa di epidemiologia delle dipendenza e di percorsi educativi basati sulla nozione di persuasione e autoregolazione responsabile.


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