«Scelgo il nome di Suor Agostina», dice Livia Pietrantoni, e aggiunge: «Non esiste una santa che si chiama così». L’espressione è scherzosa, tuttavia nasce da un motivo di fondo e cioè dall’obiettivo della santità verso la quale fin dall’inizio Livia si orienta, seguendo fedelmente la sua vocazione di servizio agli altri. Vocazione nata in una terra di pastori e contadini, dove si lavora sodo per la semina, la mietitura, la vendemmia e il raccolto delle olive: Livia nasce a Pozzaglia Sabino, un piccolo paese agricolo, il 27 marzo 1864. Forse ella incontra Cristo sofferente proprio nella dura esperienza di lavoro, nel sudore e nel sacrificio suo e dei suoi coetanei, quando, insieme ai poveri operai del luogo, usando lei stessa piccone e badile, per mezza lira al giorno, coopera a costruire per ben quattro stagioni, mangiando polvere e polvere, la strada provinciale che da Orvino porta a Poggio Moiano.
È una bella ragazza sana e operosa e diversi giovani vorrebbero sposarla. Ad uno di questi ella mostra la figura dell’«Ecce Homo» spiegando che è stata presa da Lui. L’«Ecce Homo» è il Cristo legato, impotente, offerto alla violenza e all’odio, è l’abbandonato, è Colui che andrà a morire da solo. Sulla traccia di quest’uomo Cristo, Livia avvia i suoi passi e nella povertà di questa scelta matura sempre più a fondo la gioia dell’abiezione, pregustando quello che per lei è ancora un mistero ma che già intuisce e accetta e che sarà il suo sacrificio estremo.
La sua vocazione incontra ostacoli fin dall’inizio. Il primo è dato dalla povertà: per entrare in un Istituto occorreva la dote e lei non la possedeva. Tra l’altro quello in cui vive è un periodo storico critico per gli Istituti religiosi, in quanto con l’occupazione di Roma nel 1870 la massoneria si era proposta di laicizzare progressivamente le istituzioni religiose. E particolarmente nell’Ospedale di Santo Spirito, il professor Achille Ballori (Gran Maestro Aggiunto che finirà assassinato nell’atrio di palazzo Giustiniani) toglie l’amministrazione ai Padri Concettini e vorrebbe scalzare anche le Suore, ma ancora non osa per timore d’impopolarità presso la maggioranza degli ammalati che le gradiscono. Comunque queste venivano sottoposte a continue vessazioni e limitazioni nella segreta speranza che capitolassero ma, contrariamente a ogni calcolo, non cedettero. Come membro dell’Istituto di queste Suore, Livia Pietrantoni, che finalmente supera le difficoltà della dote e l’incomprensione dei familiari, inizia il suo duro lavoro presso l’Ospedale di Santo Spirito. Inizialmente è destinata alla corsia dei bambini. È il periodo più sereno: Suor Agostina ha una grande esperienza di bambini in quanto fin da piccola si è occupata dei suoi numerosi fratellini.
Passa subito dopo al reparto degli infettivi, dove occorreva molto personale poiché specialmente nelle stagioni estive si moltiplicavano i casi di tifo. Lì Suor Agostina si ammala gravemente e c’è pericolo per la sua vita, tuttavia la sua fibra forte di montanara reagisce contro il male. Dopo un breve periodo di convalescenza, riprende il suo lavoro e diviene caposala dei tubercolotici. Chi ha esperienza di questi reparti sa quanto sia difficile trovare per questi malati la parola, il gesto e lo stesso sorriso che non feriscano, che non opprimano ancora di più, che non provochino ribellione e disperazione. È solo una carità illuminata che può aprire un dialogo e suggerire via via il momento della parola e quello del silenzio e calibrare il gesto.
Suor Agostina trova luce nell’amore e nell’abbandono al Cristo sofferente, in Colui che si è fatto cibo per la fame degli uomini, e nella dolcezza della resa ella si lascia mangiare ora dalla sofferenza, ora dalla rivolta, ora dalla violenza dei suoi malati e diventa lei stessa parte di loro. È una comunione dolorosa
ma perfetta, ed è per questo che conduce alla vittoria. Le sue consorelle non possono fare a meno di constatarlo e di dire: «Agostina vince tutti con la dolcezza».
È la dolcezza di Cristo, di Colui che, proprio mentre è lacerato nelle sue membra sanguinanti, opera la redenzione, salva e santifica. È una dolcezza che, pur esprimendosi umanamente, trae origine dalla teologia della Croce. Da qui la sua mansuetudine sgorga abbondante e le apre il mistero della beatitudine quando patisce violenza: Suor Agostina viene colpita a schiaffi e con un randello più e più volte da un esaltato. La Superiora vuole, dopo questo increscioso incidente, trasferirla, ma ella la prega di lasciarla lì perché la sua povertà si è ulteriormente arricchita per essere stata fatta degna di patire per amore di Cristo. Fra le testimonianze raccolte nel processo di beatificazione, ce n’è una, rilasciata da un giovane lavoratore, la quale dice: «Io credo che Suor Agostina si sia configurata a Cristo fino alle estreme conseguenze: dopo aver dato tutto per i suoi ha dato anche la vita».
Il 13 novembre 1894 un pregiudicato, Romanelli, che era stato dimesso dall’Ospedale Santo Spirito per indisciplina e atti volgari nei confronti del personale, riesce ad entrare nell’Ospedale e, non visto, si nasconde nella corsia dove sa che verrà la suora che lui sospetta ingiustamente essere la causa del suo allontanamento. E lì, non appena arriva, la colpisce a morte più e più volte con un pugnale. Suor Agostina muore e trova la forza di sussurrare: «Io ti perdono». Aveva trent’anni ed era già matura per il tocco finale: il martirio.
Tuttavia la Chiesa l’ha proclamata santa non per il martirio: questo è stato solo il compimento di una vita interamente spesa nell’amore e nella disponibilità e già donata in partenza al sacrificio finale. Suor Agostina è la prima suora infermiera elevata all’onore degli altari. Lo stesso Direttore dell’Ospedale, che come già si è detto era un massone, non può fare a meno di dire: «Suor Agostina si è fatta scannare come un agnello».
Infatti con la sua morte Suor Agostina manifesta la sua vita e scopre ad un tratto che questa era tutta eroismo, che era un intreccio quotidiano di carità e s’intuisce che si è vissuti vicino ad una santa senza averci fatto caso e ci si rammarica di non aver apprezzato in vita un tesoro che ora giace sgozzato: è la sposa di Cristo, la sposa dell’Agnello di Dio, di Colui che toglie il peccato del mondo. È una sposa che ha scelto di camminare in povertà, sulle tracce insanguinate della croce. La sua parola e il suo gesto non furono quindi né potevano essere appariscenti, la ricchezza era tutta interiore ed era fasciata di semplicità e di niente. «Chi vuol venire dietro a me, rinneghi se stesso, prenda la sua croce e mi segua».
Non è certo colui che si rinnega che gli uomini notano e apprezzano ma al contrario colui che si afferma e s’impone. Ecco perché Suor Agostina passò inosservata nella sua santità e forse le sue consorelle considerarono come doti naturali quei gesti abituali di bontà e di generosità che invece erano frutto di un cuore disinteressato che voleva configurarsi a Cristo.
L’ideale evangelico della carità verso il prossimo, specialmente verso i piccoli, i malati, gli abbandonati, ha condotto anche Agostina Livia Pietrantoni alle vette della santità. Formata alla scuola di santa Giovanna Antida Thouret, Suor Agostina comprese che l’amore per Gesù domanda il generoso servizio verso i fratelli. È infatti nel loro volto, specialmente in quello dei più bisognosi, che brilla il volto di Cristo. “Dio solo” fu la “bussola” che orientò tutte le sue scelte di vita. “Tu amerai”, il primo e fondamentale comandamento posto all’inizio della “Regola di vita delle Suore della Carità”, fu la fonte ispiratrice dei gesti di solidarietà della nuova Santa, la spinta interiore che la sostenne nel dono di sé agli altri. Disposta a qualunque sacrificio, testimone eroica della carità, pagò con il sangue il prezzo della fedeltà all’Amore. (Giovanni Paolo II, omelia Canonizzazione, 18 aprile 1999).
G. P.