La portata del magistero di papa Francesco, al di là del suo straordinario carisma comunicativo, ha una forte valenza teologica che si declina in molteplici modi. Ad esempio laddove, nell’Esortazione Apostolica Evangelii Gaudium (Eg), documento programmatico del suo pontificato, egli afferma “che l’unica via” da perseguire come credenti consiste nell’imparare a incontrarsi con gli altri con l’atteggiamento giusto, apprezzandoli e accettandoli come compagni di strada, senza resistenze interiori” (91), il pontefice spiega con chiarezza che “si tratta di imparare a scoprire Gesù nel volto degli altri, nella loro voce, nelle loro richieste. È anche imparare a soffrire in un abbraccio con Gesù crocifisso quando subiamo aggressioni ingiuste o ingratitudini, senza stancarci mai di scegliere la fraternità” (91).
È in questa prospettiva che papa Bergoglio rende intelligibile quella che egli definisce “fraternità mistica, contemplativa, che sa guardare alla grandezza sacra del prossimo, che sa scoprire Dio in ogni essere umano, che sa sopportare le molestie del vivere insieme aggrappandosi all’amore di Dio, che sa aprire il cuore all’amore divino per cercare la felicità degli altri come la cerca il loro Padre buono” (92). Che qui si tratti veramente di mistica si evince dall’esplicito e diretto riferimento nella Eg all’Imitazione di Cristo di Tommaso da Kempis (91) e all’Autobiografia di santa Teresa di Lisieux (92).
Ecco che allora viene istintivo domandarsi, quale modello di evangelizzazione – che affermi a chiare lettere l’universalità della salvezza e dunque la fratellanza universale – sia possibile adottare oggi, nella cornice socio-politico-economica della globalizzazione, dove l’omologazione è tale per cui a dettare le regole del gioco sono i poteri forti.
Papa Bergoglio nella Eg opta per il “poliedro” come modello di pastorale di riferimento. Scrive: “Il modello è il poliedro, che riflette la confluenza di tutte le parzialità che in esso mantengono la loro originalità. Sia l’azione pastorale sia l’azione politica cercano di raccogliere in tale poliedro il meglio di ciascuno” (236). Con le sue molteplici facce poligonali, il poliedro forma un insieme oltremodo interessante che esprime la complessità di un mondo in cui il tutto è superiore alle parti. Applicando allora il suo modello di mondo, di Chiesa e di missione in cui la mistica della fratellanza rappresenta l’elemento aggregante, il papa scrive: “Lì sono inseriti i poveri, con la loro cultura, i loro progetti e le loro proprie potenzialità. Persino le persone che possono essere criticate per i loro errori, hanno qualcosa da apportare che non deve andare perduto. È l’unione dei popoli, che, nell’ordine universale, conservano la loro peculiarità; è la totalità delle persone in una società che cerca un bene comune che veramente incorpora tutti” (236).
È dunque evidente che nel tempo della globalizzazione, di un pluralismo a trecentosessanta gradi, per realizzare una convivenza pacifica tra gli uomini, occorre un’etica fondata su un’antropologia capace di includere. Essi, infatti, indipendentemente dalle differenze culturali, linguistiche e religiose, sono portatori di storie e identità differenti, ma l’attuale prevalere del sospetto e della paura nei confronti della diversità fa sì che l’altro sia escluso dalla pienezza dell’umano. L’avvento del sistema capitalistico, d’altronde, ha determinato un graduale passaggio da una concezione morale inerente il “rapporto tra gli uomini” ad un’altra legata al “rapporto tra uomini e cose”. Questo mutamento è essenziale per comprendere il nostro tempo, e segna, per così dire, il passaggio da un’etica prevalentemente deontologica all’etica utilitaristica. Sta di fatto che proprio il diffondersi di questa etica utilitaristica e dunque fortemente pragmatica ha favorito il dominio delle categorie economiche nella riflessione politica e sociale dei Paesi industrializzati, come il nostro, ma anche di quelli emergenti.
Se da una parte è giusto che l’economia si concentri sull’efficienza e l’utilità, dall’altra è sbagliato che tutto il resto si riduca all’economia, e quindi a un discorso sull’efficienza e l’utilità. Occorre, pertanto far rientrare “il movente del profitto” entro il suo alveo ragionevole. Non è l’arricchimento in sé ad essere antisociale, ma la sua elevazione a fine ultimo e unico. In questa prospettiva, l’aspetto più ambiguo e sospetto dell’etica utilitarista sta proprio nella sua presunta e apparente neutralità, nel suo ricondursi a semplice calcolo, su cui tutti dovrebbero necessariamente assentire. La responsabilità morale e l’esigenza della virtù riguardano ogni soggetto agente, consapevole della possibilità di influire sulla realtà per migliorarla, poiché non esistono deroghe che ci sollevano dalla responsabilità per le nostre azioni egoistiche. Emerge dunque la necessità d’intervenire sulle cause stesse della disparità e delle ineguaglianze, modificando le logiche che ne sono alla base, per provocare una trasformazione reale all’insegna di un’autentica mistica della fraternità universale. La dottrina sociale della Chiesa – è bene rammentarlo – ci indica a chiare lettere il percorso da seguire, fondandosi, essenzialmente, su tre principi: solidarietà, sussidiarietà e bene comune.
È interessante ricordare che l’etimologia della parola solidarietà esprime una forte concretezza che forse a volte viene diluita dal nostro linguaggio troppe volte superficiale e generalista. Pagare in solidum, alla fine del IV secolo, indicava l’obbligazione da parte di un individuo, appartenente a un gruppo di debitori, di pagare integralmente il debito. Ed è proprio per questo motivo che è dalla parola latina solidum che deriva anche il nostro soldo. Al tempo dei Romani si trattava di una moneta, originariamente d’oro, il cui valore sarebbe dovuto rimanere stabile nel tempo. Ma fu solo a partire dal 1789, in Francia, che la solidarietà (solidarité) ha assunto la valenza odierna in quanto sentimento di fratellanza che devono provare tra di loro i cittadini di una stessa nazione libera e democratica. Oggi, il valore della solidarietà nel villaggio globale si è ampliato al punto tale da includere l’intera umanità, senza distinzioni di razze, di culture o di fedi politiche o religiose. Per questo assistiamo e partecipiamo a vere e proprie gare di solidarietà a favore di coloro che vengono colpiti da sventure o altre calamità. La solidarietà così intesa, esprime in concreto il sentimento di fraternità universale in cui si traducono varie forme di carità cristiana.
La sussidiarietà deriva, invece, dalla parola latina subsidium che vuol dire aiuto. Il principio di sussidiarietà è un principio che si è progressivamente affermato all’interno di vari ambiti della società moderna e contemporanea, nei quali questa espressione possiede differenti valori semantici a seconda dell’ambito in cui viene utilizzata. In modo generale, la sussidiarietà può essere definita come quel principio regolatore per cui se un ente che sta ‘più in basso’ è capace di fare bene qualcosa, l’ente che sta ‘più in alto’ deve lasciargli questo compito, eventualmente sostenendone anche l’azione. Ma la sussidiarietà, oggi, esprime innanzitutto e soprattutto la corresponsabilità. Nel nostro Paese, ad esempio, l’idea che un semplice cittadino potesse avere la voglia e le capacità di prendersi cura dei beni comuni insieme con l’amministrazione era considerata del tutto assurda e fuori luogo. Oggi invece questo indirizzo decisamente innovativo sta scritto nella Costituzione italiana, nell’ultimo comma dell’art. 118 e si chiama giustappunto sussidiarietà. La buona notizia, per così dire, è che si è preso coscienza nel dettato costituzionale, con una modifica del 2001, che le persone sono portatrici non solo di bisogni, ma anche di capacità le quali, se messe a disposizione della comunità, possono contribuire decisamente a rispondere, insieme con le amministrazioni pubbliche, alle istanze collettive.
Ecco che allora la dimensione della sussidiarietà acquista un significato tutto particolare, nella consapevolezza che esiste un destino comune e che tutti, davvero tutti, debbono sentirsi responsabili della res publica. Si tratta pertanto di prendere coscienza dell’importanza dell’azione dei singoli come inesauribile risorsa che può incidere fattivamente sul corso degli eventi e sul miglioramento della vita. Il bene comune, infine, è ciò che è condiviso e giova all’intera collettività. In sostanza è il terreno sul quale si misurano la solidarietà e la sussidiarietà. Esso, infatti, è molto più della somma del bene delle singole parti, ma costituisce un punto di vista diverso e più alto, in cui si va oltre il gioco delle parti e si punta sulla realizzazione di quel tutto che è la realizzazione integrale, della persona umana, per quanto essa dipende dalla collettività.
Purtroppo, oggi, a seguito di una crescente esclusione sociale, il bene comune dei popoli non sembra rientrare nell’agenda dei governi. Secondo uno studio di Oxfam – autorevole organizzazione non governativa britannica – oggi 8 persone nel mondo hanno la ricchezza posseduta da 3 miliardi e seicento milioni di persone. Questo, in sostanza, significa che il governo mondiale è in mano ai plutocrati, cioè ai fautori di un liberismo economico finanziario al di sopra degli Stati sovrani.
Può essere utile, in conclusione, richiamare alla mente il pensiero “Ubuntu”. Si tratta di un concetto filosofico della tradizione bantu, dalla forte valenza esistenziale, presente ad esempio nelle lingue dei popoli Zulu e Xhosa. Se provassimo a tradurlo in italiano, potremmo dire: “Io sono perché tu sei”, una persona diventa umana attraverso altre persone, una persona è una persona a causa di altre persone. Ecco perché da quelle parti si dice: “Umuntu, nigumuntu, nagamuntu”, che, nella lingua zulu, significa: “Una persona è una persona a causa di altri”, affermando così la centralità della relazione umana dal punto di vista ontologico. Ma non v’è dubbio che chi è riuscito, forse meglio di altri, a spiegare il reale significato di questo concetto ancestrale, è stato l’ex presidente sudafricano e Nobel per la Pace, Nelson Mandela. “Una persona che viaggia attraverso il nostro Paese e si ferma in un villaggio – ha commentato – non ha bisogno di chiedere cibo o acqua: subito la gente le offre del cibo, la intrattiene. Ecco, questo è un aspetto di Ubuntu, ma ce ne sono altri. Ubuntu non significa non pensare a se stessi; significa piuttosto porsi la domanda: voglio aiutare la comunità che mi sta intorno a migliorare?”.
Ma per comprendere ancora meglio quanto sia forte la dimensione relazionale all’interno di queste culture di ceppo “bantu”, è illuminante un aneddoto raccontato da un antropologo che ha svolto un’intensa ricerca su questo tema in Sudafrica. Un giorno egli aveva deciso di mettere un cesto pieno di frutta vicino a un albero, dicendo poi a un gruppo di ragazzi che chi tra loro fosse arrivato prima avrebbe vinto tutti i frutti. Quando aveva dato il segnale, tutti i bambini si erano presi per mano e avevano corso insieme, poi si erano messi in cerchio per godere comunitariamente il premio promesso. Successivamente, lo studioso aveva chiesto il motivo per cui avevano evitato la competizione, e tutti avevano risposto insieme: “Ubuntu!”. Una saggezza ancestrale che tutto comprende, dalla forte valenza evangelica e a cui il mondo globalizzato, quello degli affari e dello spread, dovrebbe guardare maggiormente con rispetto. Anche perché, come scriveva l’indimenticabile Zygmunt Bauman “essere morali significa sapere che le cose possono essere buone o cattive. Ma non significa sapere, né tanto meno sapere per certo, quali siano buone e quali cattive… Essere morali significa non sentirsi mai abbastanza buoni: sono portato a credere che tale sensazione si celi dietro l’esigenza endemica di trascendenza e spieghi la notoria irrequietezza umana riguardo a ciò che è umano”. Come dargli torto?