Tra i grandi santi torinesi dell’800 spicca, per la carità, san Giuseppe Benedetto Cottolengo. Egli contribuì a rendere meno crudele la vita dei più poveri nella società sconvolta dalla prima rivoluzione industriale e affidandosi alla Provvidenza creò un’opera grandiosa e meravigliosa che ancora oggi è sinonimo di misericordiosa carità per gli ultimi degli ultimi.
Ma chi era Giuseppe Benedetto Cottolengo? Nato nel 1786 in una famiglia di commercianti di Brà, era stato ordinato nel 1811 sacerdote, nel 1816 aveva conseguito la laurea in teologia all’università di Torino e due anni dopo era diventato Canonico di una della più importanti chiese della città, quella del Corpus Domini. Intorno a quella basilica aveva scoperto il mondo fino allora sconosciuto degli emarginati. Erano stati proprio loro a scuoterlo, a “risvegliarlo”. “Come posso portare il vangelo dove gridano troppo forte la miseria e l’ingiustizia?” aveva cominciato a domandarsi, inquieto e confuso. “Eppure sono diventato prete per questo!”. Un giorno il rettore della basilica gli aveva consigliato di leggere una biografia di San Vincenzo de’ Paoli: da quel libro era cominciata la “conversione”. I poveri erano entrati nella sua vita.
La morte di Anne-Marie Gonnet segnò la svolta decisiva. Era il 2 febbraio 1827. Il canonico Giuseppe Cottolengo aveva appena terminato la preghiera del vespro nella basilica del Corpus Domini quando lo vennero a chiamare perché corresse a confortare una donna incinta che stava per morire: si chiamava appunto Anne-Marie Gonnet ed era stata rifiutata da tutti gli ospedali della città.
Il canonico, prontamente accorso, confortò gli ultimi istanti di quella poveretta. Poco dopo giungeva il medico dei poveri che, constatato il decesso tentava di salvare la creatura che la donna portava in grembo: era una bimba che Cottolengo fece appena in tempo a battezzare.
Dopo quella tragedia il Cottolengo si avvia verso la parrocchia e ordina al sacrestano di chiamare la gente in chiesa; il canonico si accosta all’altare e intona le litanie lauretane. Alla fine della preghiera annuncia “la grazia è fatta. La grazia è fatta! Benedetta la Santa Madonna!”. Aveva deciso, aveva accolto la chiamata di Dio! Pochi giorni dopo affittava due stanze, di fronte la basilica del Corpus Domini, in una casa popolare detta della Volta Rossa, accogliendo i primi due ospiti, un calzolaio tubercolotico e una donna affetta da idropisia: era l’embrione di un ospedale destinato ad accogliere i poveri e malati rifiutati da tutti.
Una giovane vedova, Maria Nasi Pullini, che si era dedicata totalmente all’impresa del Cottolengo, aveva formato un gruppo di ragazze che, mettendosi al servizio dei poveri, avrebbe costituito il primo nucleo delle Suore Vincenzine. L’esperienza della casa della Volta Rossa durò 4 anni fino al 1831 quando Cottolengo riuscì ad affittare una casupola in una zona periferica tra Borgo Dora e Valdocco, sulla quale inchiodò alla porta d’ingresso un cartoncino scrivendoci “Charitas Christi urget nos”, la carità di Cristo ci sprona; era in compagnia della Nasi e di un gruppo di vincenzine, recitò il Pater noster e quand’ebbero finito di pregare proclamò: “oggi è nata la Piccola Casa della Divina Provvidenza” che avrà come protettore san Vincenzo de’ Paoli”. Così cominciò a formarsi quello che a Torino è chiamato “il Cottolengo”: un complesso di edifici che crescevano negli anni man mano che il fondatore apriva nuove sezioni per ogni genere di malattia.
“I poveri sono Gesù” diceva ai suoi collaboratori “non una sua immagine: sono Gesù in persona e come tali bisogna servirli… tutti i poveri sono i nostri padroni… sono le nostre vere gemme” e soggiungeva “esercitate la carità, ma esercitatela con entusiasmo! La vostra carità deve essere condita con tanta buona grazia e belle maniere in modo da guadagnare i cuori; deve essere come un piatto ben preparato la cui vista eccita l’appetito”.
Oltre ai malati rifiutati da tutti il Cottolengo pensò anche ad altri infelici, accolse orfani, ragazze sbandate, invalidi; aprì il primo asilo piemontese per i bimbi i cui genitori dovevano lavorare fuori casa. Era instancabile: “avanti in Domino!” amava ripetere nelle difficoltà ed erano tante, specialmente finanziarie, ma miracolosamente, quando la Casa era sull’orlo della bancarotta arrivava un insperato benefattore e tutto si risolveva.
“Deo Gratias” esclamava allora con un’espressione che è diventata proverbiale fra i Cottolenghini.
Un giorno venne nella Piccola Casa il Ministro degli Interni di Re Carlo Alberto che vedendo le numerose costruzioni, obiettò che se fosse fallita la responsabilità per tutti quei poveri sarebbe ricaduta sulle spalle del governo. “Ella si preoccupa di un problema risolto – gli rispose il Cottolengo – questa Casa vive sotto la protezione della Divina Provvidenza. Spariranno gli uomini, passeranno i governi, ma la banca della Divina Provvidenza non fallirà mai!”. Il ministro ne fu talmente conquistato che fece assegnare al Cottolengo la massima onorificenza del Regno. Lo stesso Carlo Alberto diventò un benefattore della Piccola Casa che amava definire “l’ospedale del miracolo”.
Ma quell’ospedale non era soltanto un’opera caritativa: si fondava sulla profonda comunione con il Cristo nella preghiera, tant’è vero che san Giuseppe Benedetto Cottolengo definiva la preghiera “il primo e il più importante lavoro della Piccola Casa” e volle che fosse continua con la laus perennis cui partecipavano giorno e notte a turno ricoverati e religiose.
In questa dimensione contemplativa fondò anche le Suore di Clausura, i Preti della Santissima Trinità, il Piccolo Seminario dei Tomassini e molte altre “famiglie religiose”.
Nella primavera del 1842 Cottolengo ha 56 anni: dalla fondazione della Piccola Casa non si è concesso un giorno di riposo, ma ora ne sente il bisogno perché sfinito dalla fatica: si concede una settimana di quiete e si trasferisce a Chieri dal fratello Luigi. Viene subito assalito da una febbre alta: è tifo petecchiale, lo stesso che ha colpito la città negli ultimi giorni. Il Cottolengo è molto grave, nei giorni seguenti la febbre altissima lo fa a tratti delirare. Sabato 30 aprile verso le 8 di sera dopo aver esclamato più volte “Mamma mia Maria, Madre mia” muore dicendo “Quale gioia quando mi dissero: andremo alla casa del Signore”.
Don Tonino Panfili