Nello scorso numero abbiamo riferito il caso di una lite giudiziaria costosa e complessa insorta sulla questione dell’affidamento di un cane, allargando nel contempo lo sguardo alle molte volte in cui ci si imbatte in lasciti testamentari in favore di animali, un fenomeno in larga e potente espansione.
Stavolta prendiamo le mosse da una ricerca della Coldiretti secondo la quale in occasione delle ultime festività natalizie (si badi bene: nei soli giorni di Natale e della vigilia) gli italiani hanno speso 2,3 miliardi di euro per la tavola. Dati ulteriori spiegano che sono in calo i consumi di prodotti esotici e fuori stagione, ma la spesa complessiva è comunque cresciuta (+5%) rispetto allo scorso anno, e infine che mediamente si sono trascorse oltre 3,3 ore in cucina per la preparazione dei piatti. Comprensibile la soddisfazione dei produttori agricoli italiani. E la nostra, di soddisfazione? Si sta parlando di una cifra assai consistente ed è quasi inevitabile, per un cristiano dotato di coscienza, interrogarsi sulla opportunità di destinare alla soddisfazione del senso del gusto risorse così ingenti. E infatti proprio per le occasioni di festa “tradizionali” come il Natale o la Pasqua (quest’ultima arricchita dalle accuse sulla strage degli innocenti agnellini) si rinnovano molte polemiche, che sono certo largamente condivisibili, sulla sfrenatezza dei consumi. Essa ha finito per assumere caratteri di identificazione sociale (consumo quindi sono), con per di più la consolante aggiunta morale che ‘consumando io aiuto l’economia’. Come non condannare lo spreco? “I Vescovi della Nuova Zelanda si sono chiesti che cosa significa il comandamento ‘non uccidere’ quando un venti per cento della popolazione mondiale consuma risorse in misura tale da rubare alle nazioni povere e alle future generazioni ciò di cui hanno bisogno per sopravvivere” (LS, 95).
Tutto vero, naturalmente, e un numero sempre maggiori di cristiani, costernati dal fatto che spesso le orge di sprechi avvengano proprio in occasione delle più importanti scadenze dell’anno liturgico richiamano anche polemicamente se stessi e tutti alla sobrietà e a mettere gli ultimi in cima ai nostri pensieri, sull’esempio di Gesù. Che tale sensibilità sia in crescita è un fatto certamente positivo, e non c’è bisogno di spiegarne il motivo.
Ma lo zelo di taluni conduce spesso a condannare in toto una modalità di “festa” che assuma anche aspetti più propriamente di festeggiamento materiale e non solo di natura spirituale. Per dirla tutta non è raro imbattersi in un atteggiamento pauperistico che se da una parte ha i suoi meriti, specialmente oggi, dall’altra finisce per ricordare l’invito del maligno al Signore di trasformare le pietre in pane. Signore, perché non l’hai fatto?
Apparentemente si tratta di un problema futile (nella cristianità moderna tutto ciò che ha a che vedere con il peccato di gola sembra derubricato a cosa irrilevante): in realtà siamo nel cuore della moralità evangelica, nel punto in cui sembrano confluire problemi i più apparentemente distanti come quelli politici e di giustizia sociale, di salvaguardia della casa comune, di misericordia e della stessa tante volte invocata ‘pace’. Ascoltiamo sul tema proprio la Laudato Si’:
98. Gesù viveva una piena armonia con la creazione, e gli altri ne rimanevano stupiti: «Chi è mai costui, che perfino i venti e il mare gli obbediscono?» (Mt 8, 27). Non appariva come un asceta separato dal mondo o nemico delle cose piacevoli della vita. Riferendosi a sé stesso affermava: «È venuto il Figlio dell’uomo, che mangia e beve, e dicono: “Ecco, è un mangione e un beone”» (Mt 11, 19). Era distante dalle filosofie che disprezzavano il corpo, la materia e le realtà di questo mondo. Tuttavia, questi dualismi malsani hanno avuto un notevole influsso su alcuni pensatori cristiani nel corso della storia e hanno deformato il Vangelo. Gesù lavorava con le sue mani, prendendo contatto quotidiano con la materia creata da Dio per darle forma con la sua abilità di artigiano. È degno di nota il fatto che la maggior parte della sua vita è stata dedicata a questo impegno, in un’esistenza semplice che non suscitava alcuna ammirazione: «Non è costui il falegname, il figlio di Maria?» (Mc 6, 3). Così ha santificato il lavoro e gli ha conferito un peculiare valore per la nostra maturazione. San Giovanni Paolo II insegnava che «sopportando la fatica del lavoro in unione con Cristo crocifisso per noi, l’uomo collabora in qualche modo col Figlio di Dio alla redenzione dell’umanità». Se alla luce di queste considerazioni torniamo ai dati della ricerca di Coldiretti, confessiamo apertamente di non sapere se le risorse bruciate per la festa di Natale siano state troppe: forse si, indubbiamente impressionano.
Eppure, non ci vogliamo abbandonare ad una edizione di quei malsani dualismi di cui ci parla la Laudato Sì, neppure alla versione moderna di essi, che si ammanta sovente di una retorica un po’ troppo facile, cui sembra sottostare la compiaciuta consapevolezza di avere ben letto l’ineffabile volto di Dio e di poter quindi sempre dire la nostra con infallibile certezza magari sui consumi per le feste (per lo più quelli degli altri). Essa ci ricorda un po’ troppo da vicino la severa e magari logicamente inappuntabile lezione impartita alla donna che ungeva il capo di Gesù (Mc 14, 4-5). “Ci furono alcuni che si sdegnarono fra di loro: Perché tutto questo spreco di olio profumato? Si poteva benissimo vendere quest’olio a più di trecento denari e darli ai poveri. Ed erano infuriati contro di lei”.
E intanto siamo sobriamente soddisfatti di un altro dato: quello che riguarda le ore trascorse in cucina. L’amore di Dio, nella famiglia, passa anche per la cucina, checché ne dicano moralisti di ogni scuola: ci passa, eccome.
Alberto Hermanin