Un sigillo in piombo, databile fra il XII e il XIII secolo, attualmente nella Biblioteca Civica e Ursino Recupero di Catania riporta nel recto una rappresentazione di Sant’Agata con una dicitura in lingua greca che la identifica, e un’altra in lingua latina che attesta come il sigillo sia della Chiesa catenese. È il più antico signum della Chiesa di Catania di cui si è a conoscenza[1].
È particolarmente simpatico cominciare a parlare di Sant’Agata partendo proprio da questo frammento che appartiene alla storia della sua venerazione legata indissolubilmente alla città che si vanta di averle dato i natali, Catania. Si tratta di una santa martire venerata come pochi: centinaia di chiese nel mondo sono a lei intitolate e molti sono anche i comuni che ne portano il nome. La festa della “Santuzza” è, per partecipazione popolare, una delle più imponenti feste cattoliche di tutto il mondo. Ora, sarebbe impossibile in questo spazio tracciare una storia del suo culto, per la vastità spaziale e temporale di esso. Limitiamoci quindi a qualche cenno sulla sua persona.
La Passio Sanctae Agathae, che costituisce la fonte più antica su questa santa, è del V secolo: narra di una giovane donna che sarebbe stata martire della fede intorno alla metà del III secolo: insomma duecento anni prima: la critica storica moderna è unanime nel ritenere il documento assai poco attendibile come fonte certa della sua vita. Si tratta insomma di una ricostruzione probabilmente fantasiosa della vita della santa, costruita su un culto che già doveva essere fiorente. Questo non fa di lei un personaggio inventato: esistono testimonianze archeologiche del culto a lei indirizzato, databili a pochi decenni dopo il suo martirio. È assai probabile insomma che la tradizione cultuale si sia sovrapposta al nucleo di storicità costituito dalla morte subita da una giovane di famiglia illustre nella città di Catania nel quadro delle persecuzioni dell’epoca di Decio ovvero, secondo altre fonti, di Diocleziano.
L’edificante racconto riporta che la giovane, che già aveva dedicato la sua verginità a Cristo, resiste alle lusinghe e poi alle violenze, sempre più fantasiosamente crudeli, del governatore locale. Soccorsa da San Pietro in persona, e da angeli, muore infine bruciata (lei, ma non il suo velo, che viene ritenuto per questo un efficace talismano contro i pericoli delle eruzioni vulcaniche sempre presenti nella zona dell’Etna) dopo aver affermato con chiarezza al suo torturatore che le chiedeva perché, pur essendo nobile, conducesse una vita bassa come quella di una schiava, che “È nobiltà suprema essere schiavi di Cristo”.
Cosa dice oggi, al nostro palato che si autoproclama più raffinato di quello degli uomini che per centinaia di anni l’hanno venerata, e tuttora la venerano? Non è difficile comprenderlo. Che piaccia o no ai molti che si ingegnano a ridimensionare tutto il martirologio cristiano, certamente gonfiato nei secoli ma non per questo opera di pura fantasia, i martiri delle persecuzioni ci furono, e interessa relativamente poco sapere che la cifra esatta dei morti si aggiri sulle migliaia anziché sui milioni di esseri umani che i nostri tempi progrediti rendono possibile sopprimere con metodi “scientifici”.
Quel che conta è la straordinaria impressione che questi inermi di dura cervice seppero comunicare al mondo di allora, e che non cessano di comunicare anche oggi, in quell’oggi in cui non pochi loro fratelli e sorelle, in diverse parti del mondo, continuano a perdere la vita pur di non rinnegare la fede. L’abbiamo detto, inermi: ma combattenti indomiti che seppero e sanno trasmettere il messaggio della forza straordinaria di un cuore mite: “Tu sei il mio rifugio e la mia fortezza, il mio Dio, in cui confido” (Sal 91, 2).
Alberto Hermanin
[1] cfr. Gaetano Zito, in http://www.diocesi.catania.it/sites/default/files/Pergamena e sigillo.pdf