Strana vita quella di Jacopo de’ Benedetti: nato a Todi intorno al 1230, era di nobile famiglia. Studiò giurisprudenza probabilmente nella rinomata Università di Bologna nota a livello europeo e intraprese la carriera notarile, o quella di procuratore legale della sua città: a testimonianza di ciò un verso della sua XIV Lauda: Pro un becchieri una vultura.
Nel 1265 o 1267 sposò una giovane donna aristocratica, Vanna di Bernardino di Guidone dei conti di Coldimezzo. Inizia la leggenda: in una lussuosa festa da ballo molto in voga al tempo, si aprì nel pavimento una voragine da cui cadde Vanna. Sotto le sue vesti si scoprì un cilicio, strumento di penitenza usato da molti asceti. A quella scoperta seguì per lui una vita di penitenza estrema, conseguenza anche del suo estroso temperamento: si narra che un giorno nudo e spalmato di miele entrò in un gallinaio e si coprì di penne di galline. E così uscì per strada.
Le notizie più certe le ricaviamo dalle numerose Laudi che egli compose.
Le Laudi erano un genere letterario molto in voga nel Medioevo; univano melodie e recitazione e in genere erano rappresentate nelle piazze dei borghi e dei paesi. Tutto il popolo partecipava.
Per dieci anni Jacopo visse nel rigore più severo e nel 1278 chiese di entrare nell’ordine dei Frati Minori; probabilmente fu questo il periodo in cui cambiò per umiltà il nome in Jacopone. Dell’Ordine francescano egli colse il rigore della povertà più che il canto della bellezza della natura. In quel momento l’Ordine francescano stava attraversando una situazione delicata per uno scontro interno fra i Conventuali sostenuti dal Cardinal Caetani, divenuto in seguito Papa Bonifacio VIII, e gli Spirituali, sostenuti da Celestino V, Pietro da Morrone, che volevano fosse mantenuto intatto l’originario rigore per la povertà voluto da S. Francesco. Ovviamente Jacopone si schierò con l’ala rigorista. Vinse il più forte per gli appoggi di potenti famiglie, e al soglio pontificio salì Bonifacio VIII, il quale fece rinchiudere Celestino nel castello di Fumone, presso Frosinone, scomunicò la famiglia dei Colonna e con loro anche Jacopone.
Seguirono per lui lunghi anni di carcere e in età avanzata gli fu difficile sopportare disagi e malattie. Chiese più volte a papa Bonifacio la revoca della scomunica: era l’anno del primo grande Giubileo, ma il papa non gliela concesse. Solo alla morte di Bonifacio il successore Benedetto XI, pur seguendo la linea di Bonifacio gli accordò la grazia e la libertà: Jacopone, ormai gravemente malato, morì a dicembre del 1306.
Terminò così una vita travagliata ma ricca di spiritualità, nonostante alcuni eccessi, e con un’ampia produzione poetica di grande valore: è un ritratto vivace della vita pubblica del tempo e delle sue travagliate esperienze.
Il motivo di fondo della sua produzione poetica è la contemplazione della miseria umana. Partendo da se stesso vuole sollecitare il cristiano ad una forte vita ascetica, in questo contesto si collocano alcune sue strane penitenze.
Generazioni di studenti delle scuole superiori hanno seguito con curiosità ed interesse le vicende dello scrittore di Todi, dettati forse dall’estremismo delle sue esperienze.
Sono attribuite a Jacopone da alcuni critici un alto numero di Laudi: antichi manoscritti di area umbra riconoscono come attribuibili a lui circa cento unità. È concordemente attribuita a lui la Laude “Stabat mater dolorosa iuxta crucem lacrimosa dum pendebat Filius”, che cadenza il cammino della via Crucis, una delle devozioni più care al popolo cristiano in tempo di Quaresima. Ritornano vive le parole di Giovanni: “rimanete nel mio amore” e “la Vergine Madre stabat, stava”.
Le Laudi procedono in forma dialogica nel contrasto fra vita e morte, peccato e pietà e l’andamento poetico si snoda attraverso ripensamenti, ironia, interrogazioni caratterizzate, come detto, da una visione dolorosa della vita.
Jacopone, poeta e uomo di Dio, il tuo anelito è stato riconoscere la Verità come ultima meta e il tuo tormento quotidiano “empazzir per lo bel Messia”.
Maria Mazzei