“C’è bisogno di testimoni di speranza e di gioia vera, per scacciare le chimere che promettono una facile felicità con paradisi artificiali. Il vuoto profondo di tanti può essere riempito dalla speranza che portiamo nel cuore e dalla gioia che ne deriva. C’è tanto bisogno di riconoscere la gioia che si rivela nel cuore toccato dalla misericordia. Facciamo tesoro, pertanto, delle parole dell’Apostolo: siate sempre lieti nel Signore” (Papa Francesco, Lettera Apostolica Misericordia et misera, 3).
Ci piace cominciare quest’anno 2017 con le parole del Papa a chiusura dell’Anno Santo della Misericordia: non per renderne approfonditamente conto, ma per significare il senso che noi diamo ai semi di speranza che si sviluppano nei nostri tanti deserti. Potremmo, fra questi, citare il deserto del linguaggio: quello per esempio che sui mezzi di comunicazione sistematicamente distorce il senso anche evidente delle affermazioni di molti per motivi di conservazione del potere, anche solo culturale. Ma lasciamo stare: ognuno di noi, in verità, conosce e può sempre conoscere i suoi propri deserti e quelli che ci circondano senza doverci impancare in minuziose analisi di sapore sociologico che, pure se utili, hanno i loro forti limiti. Si potrebbe dire che noi vogliamo parlare di fulmini, non di lampadine elettriche, anche se tecnologicamente avanzate o al led. È proprio del cristiano, infatti, ricondurre sempre qualunque “indicazione operativa” nella sfera di quella moralità dell’amore in cui consiste la Rivelazione.
È proprio il caso di ricordarcelo sempre: qualsiasi misura di impegno, se non vuole essere vana, deve misurarsi con il servizio d’amore il più essenziale, il più vicino, insomma il più “prossimo”. Se così non fosse, la vittoria del Signore non sarebbe stata conseguita su un patibolo, ma nella residenza sfarzosa di un vincitore secondo il mondo. Talvolta non l’azione frenetica di cui sembra affamato il nostro tempo, ma esattamente il suo contrario realizza la più alta delle “indicazioni operative”: “a volte, anche il silenzio potrà essere di grande aiuto; perché a volte non ci sono parole per dare risposta agli interrogativi di chi soffre. Alla mancanza della parola, tuttavia, può supplire la compassione di chi è presente, vicino, ama e tende la mano. Non è vero che il silenzio sia un atto di resa, al contrario, è un momento di forza e di amore. Anche il silenzio appartiene al nostro linguaggio di consolazione perché si trasforma in un’opera concreta di condivisione e partecipazione alla sofferenza del fratello”. (Papa Francesco, Lettera Apostolica Misericordia et misera, 13).
Noi non ci immaginiamo Suor Leonella Sgorbati impegnata a fornire indicazioni operative ai tanti drammi africani: le avrà magari seguite con simpatia e avrà dato il suo parere quando e se qualcuno si sarà premurato di chiederle; ma noi vediamo la sua vita scorrere “nella preghiera assidua, nella docile apertura all’azione dello Spirito, nella familiarità con la vita dei santi e nella vicinanza concreta ai poveri” (Papa Francesco, Lettera Apostolica Misericordia et misera, 20). Sarà vissuta piuttosto, come raccomanda di fare Thomas Merton, “con la disperazione sempre davanti”, ma non consentendovi. “L’avrà calpestata con la speranza che aveva nella Croce. Le avrà mosso guerra incessantemente”.
Insomma, ce lo ricorda bene il Servo di Dio Guglielmo Giaquinta: “è su questo punto centrale dell’animo umano, su questa zona sensibile che si chiama cuore, che si chiama amore, esigenza d’amore, attesa d’amore, è su questa zona più profonda, forse a volte pudicamente nascosta, ma reale, presente in ogni creatura umana, che noi dobbiamo puntare se vogliamo dare un minimo di speranza, di fiducia, di attesa, di certezza per il domani”.
La copertina di questo numero di Aggancio riporta una immagine biblica, quella di Giobbe, icona della sofferenza e uomo dei dolori prima ancora del Servo di Isaia, primo e drammatico esempio di analisi della giustizia e della speranza. I suoi occhi sono, in ogni caso, rivolti verso Dio, verso la contraddizione cui da sempre l’uomo cerca di porre rimedio, che cerca senza posa di razionalizzare per venirne a capo. Giobbe sa che “il suo Redentore vive” e che lo “contemplerà a lui favorevole”. E, osserva S. Agostino[1], “chiama iniqui coloro che orgogliosamente si pongono al di sopra dei peccatori e pensano d’essere impeccabili”.
Tanto più la sua disperata speranza è impressionante in quanto la risposta del Padre al suo grido a lui non era nota. Quella risposta che a noi invece è nota, familiare, prossima; che ci ha lasciato se stesso come cibo e bevanda, che ci dà “la certezza che non siamo orfani. Non siamo orfani giacché Gesù, che negli Apostoli ci ha chiamato suoi figlioletti, è sempre con noi come padre buono”.
Alberto Hermanin
[1] Sant’Agostino, Annotazioni sul libro di Giobbe; http://www.augustinus.it/italiano/annotazioni_giobbe/index2.htm