Seguire la chiamata che Dio ci rivolge è un rischio ma può essere, indubbiamente, un’opportunità. Lo stesso Benedetto da Norcia nella Regola domanda ai suoi figli cosa possa «esserci di più dolce per noi di questa voce del Signore che ci chiama? Guardate come nella sua misericordiosa bontà ci indica la via della vita!» (Regola, Prologo, 19-20), perché «nella fede si corre per la via dei precetti divini col cuore dilatato dall’indicibile sovranità dell’amore » (Regola, Prologo, 49).
Per noi uomini comuni, timorosi e paurosi, basta scendere in strada e guardarsi attorno per scorgere quanto bisogno ci sia di umanità. Uomini ripiegati su se stessi riempiono le strade delle nostre città, dei nostri quartieri, delle nostre strade e delle nostre periferie dimenticate. Il cristiano non ha bisogno di inventare niente di nuovo, dovrebbe semplicemente tornare alle sue origini, al Vangelo, alla carne di Cristo, in cui è narrata la storia di un Dio che si è fatto uomo, che è morto ed è risorto e che è rimasto “umano” fino in fondo.
Se non riusciamo a vedere nella nostra carne la carne del Figlio, non riusciremo a vedere null’altro. Non ci sono parole più facili e comprensibili di quelle del Vangelo e dell’Uomo della Croce. Parole che ad ognuno di noi chiedono coerenza. Scrivo sui santi perché l’uomo ha necessario bisogno di restare umano; di riscoprire la propria umanità; di abbracciare ed accogliere la propria carne: ferita, nuda, il più delle volte confusa ma avvolta dall’amore di Dio! Dal suo amore concreto! Carne che, se lo vogliamo, diventa “casa di Dio”. Ogni volta che apro il Vangelo o il breviario per la recita dell’Ufficio divino mi accorgo che Dio non conosce veramente confini e raggiunge tutti senza escludere nessuno! Ogni giorno il Vangelo mi espone, mi spoglia di tutto, mi fa nudo, autentico semplice – o almeno è quello che mi auguro accada! Ogni giorno cerco di compiere un atto di libertà: uscire dall’ansia di possedere, dall’egoismo e dalla illusione di poter dire «basto a me stesso». Qualcuno ha scritto che Dio non lo ami se non lo conosci, ma se arrivi a conoscerlo non lo lasci più.
Quanto è vero!
I santi ci hanno insegnato che quando arrivi a conoscere chi è Dio, ne avverti il profumo ovunque Egli passi. E tutto diventa importante! Impari ad amare come Lui ama; impari ad amare l’altro oltre ciò che appare, perché impari a conoscere l’altro dal di dentro, dal cuore! E Dio, allora, diventa l’oggetto del tuo esistere! Se decidiamo, anche solo per un po’ di lasciar fare a Lui, donando il nostro tutto saremo anche noi i veri protagonisti della storia e del Regno, uomini e donne che fanno la Chiesa, segnando silenziosamente il cammino dell’umanità verso il Padre.
Benedetto da Norcia lo aveva sperimentato e compreso: si può vivere avendo un cuore dilatato, un cuore che si fa grande a motivo dell’indicibile amore ivi riversato dal Padre! Un cuore che può dilatarsi e rattrappirsi, chiudersi, non aprendosi all’amore di Dio e del prossimo. “Non siamo creature vuote”, ma abitate da quel Dio della Vita che ci ama! Quando ci sforziamo di amare (di morire a noi stessi, più semplicemente), superando le logiche del mondo e del nostro egoismo Egli invade la nostra vita, la ritma! Chi ama rischia tutto senza chiedere niente. Si consegna. Non si tratta, per questo, di “diventare migliori”, ma di arrivare a essere ciò che siamo davanti a Dio: un atto d’amore! Ognuno è chiamato a realizzare la propria vocazione, cosciente che «amare vuol dire cercare di spogliarsi e privarsi per Dio di tutto ciò che non è Lui» (cit. San Giovanni della Croce, Salita al Monte Carmelo). Mi viene chiesto di scrivere sul deserto: è un argomento vasto. Quasi tutte le figure di santità che ho incontrato o hanno superato una profonda crisi esistenziale (penso per esempio al Beato Enrico Rebuschini) o hanno sperimentato la notte oscura, riuscendo fruttuosamente a trovare il modo di attraversare con successo questo faticoso passaggio. Esse si sono ritrovate negli abissi di una profonda oscurità interiore, sentendosi completamente inermi e abbandonate; ma hanno trovato il modo per superarla. I grandi mistici ci hanno insegnato che la notte oscura dell’anima è un viaggio verso la luce: è un paradosso ma è così! Essa è un percorso dall’oscurità alla luce. Attraversare la notte oscura richiede tempo, lacrime, pazienza, amore, contemplazione, preghiera, silenzio e sacrificio. È un viaggio per imparare a vedere il mondo e l’uomo così come fu pensato da Dio.
«Fin dall’inizio del mio ministero come Successore di Pietro ho ricordato l’esigenza di riscoprire il cammino della fede per mettere in luce con sempre maggiore evidenza la gioia ed il rinnovato entusiasmo dell’incontro con Cristo». È papa Benedetto XVI che parla. Sono pensieri tratti dalla lettera apostolica Porta fidei, con la quale ha indetto l’Anno della fede. Egli spiegava il senso e l’importanza del fatto che nella Chiesa ci sia sempre una costante azione pastorale, in modo che tutti gli uomini, soprattutto quanti hanno abbandonato la vita di fede, possano ritornare al Signore, sentendo il desiderio di convertirsi nuovamente a Lui che è l’unico Salvatore dell’uomo.
Il deserto è una realtà misteriosa. Ogni uomo di Dio lo sa bene, non si giunge nel deserto da turisti. Esso non è un semplice oggetto di curiosità, né un’occasione per sperimentare emozioni forti. Il deserto è un luogo sacro e, prima di solcarlo, ci si deve sbarazzare di tutte le maschere e le convenzioni, come Mosè fece con i suoi sandali: “Mosè pensò: ‘Voglio avvicinarmi a vedere questo grande spettacolo: perché il roveto non brucia?’ Il Signore vide che si era avvicinato per vedere e Dio lo chiamò dal roveto e disse: ‘Mosè, Mosè!’. Rispose: ‘Eccomi!’. Riprese: ‘Non avvicinarti! Togliti i sandali dai piedi, perché il luogo sul quale tu stai è una terra santa!” (Esodo 3, 3-5). Un antico uomo del deserto, Sant’Efrem, ricco di esperienza e di saggezza diceva a proposito: «Beato sei tu, o uomo che porti i tuoi passi nel deserto… sappi che la strada del deserto è stretta. Se non ti spogli non la potrai mai trovare. Solo la povertà ne apre le porte. Dunque affrettati e domanda la grazia di scoprire la povertà al fine di arricchirti di saggezza. Non fermarti mai quaggiù, ma stabilisciti nel cuore stesso del deserto: allora sarai vicino al paradiso perché sarai abbastanza forte per accoglierti come sei».
Il deserto è troppo ampio per essere raccontato e descritto con una parola sola. Ci vogliono tante espressioni, anche contraddittorie probabilmente, per scoprirne i misteri nascosti nelle sue profondità. Esso non è una terra di rifugio e di riparo. L’uomo del deserto è un «ribelle» perché non si arrende agli schemi della società moderna. Egli non smette di desiderare di incontrare se stesso. Entrare nel deserto significa avere il coraggio di incontrarsi con il proprio io interiore; con le distese di luce e di verità che lo caratterizzano ma anche con le tante zone d’ombra: nel deserto dello spirito non esistono scappatoie, nulla che permetta di nascondere tutte quelle domande che si agitano nel nostro io più profondo. Il deserto depura!
Ci rende veri. Un maestro di spiritualità, Fratel Carlo Carretto, Piccolo Fratello di Gesù, annota in un suo famoso libro, Lettere dal deserto del 1967, che «quando si parla di deserto all’anima, quando si dice che il deserto deve essere presente nella tua vita, non devi intendere solo la possibilità di andare nel Sahara o in altri luoghi desertici. (…) E se tu non potrai andare nel deserto, devi però “fare il deserto” nella tua vita». Nel deserto si fa una strana esperienza di «morte», si sperimenta la propria debolezza, la propria piccolezza e incapacità.
Si fa esperienza del proprio dolore. E ancor più nel nostro dolore si fa esperienza della nostra fedeltà a Dio. Il deserto è espressione della fedeltà a Dio; esso è un lasciare entrare nel nostro intimo, l’essere stesso di Dio che riempie, illumina e dà senso alla nostra esistenza. Nel deserto non esistono effetti immediati, ci sono dei passaggi graduali da affrontare, un po’ alla volta, per arrivare, poi, gradualmente, a sentire vibrare il nostro cuore della presenza di Dio! Un Dio che ci conduce e ci aspetta: “Ti attirerò a me, ti condurrò nel deserto e parlerò al tuo cuore” (Osea 2, 16). Non esiste uomo di fede, non esistono credenti che non siano passati per il deserto, che non abbiano vissuto una preghiera coraggiosa e un silenzio adorante. Tantissimi sono i testimoni che hanno avuto a che fare col deserto. Non mi riferisco ai grandi nomi a noi conosciuti: penso, per esempio, a San Rafael Arnáiz Barón, ai Beati Charles Eugène de Foucauld e Maria Rita Lopes Pontes, detta Irmã Dulce dos Pobres e Nicola da Gesturi, ai Servi di Dio Candido Amantini CP, Maria Aristea Ceccarelli, Franz de Castro Holzwarth e Francesca Lancellotti Zotta. E tanti altri, santi minori (impropriamente), la cui vita è una miniera da cui trarre costantemente frutti sempre nuovi. La rinuncia totale a tutte le cose e a se stessi – il nada di San Giovanni della Croce – fu la strada che percorsero e consigliarono per raggiungere la santità.
Troppo spesso l’uomo è assalito e ferito da briganti, e rimane tramortito al bordo della strada. Un uomo/brigante di altri uomini è il modello che ci propone la società! Viviamo in una società che ha un concetto troppo consumistico delle relazioni umane – dell’uomo stesso probabilmente! Avviene per tanti di noi quanto è avvenuto all’uomo della parabola lucana (Luca 10, 25-37): i briganti vedono cosa può interessar loro, si avvicinano, saccheggiano, spogliano e prendono ciò di cui hanno bisogno; dopodiché se ne vanno e ti lasciano lì, sul ciglio della strada, mezzo morto. Il brigante crede di aver preso tutto da quell’uomo, di aver rubato ogni cosa: non si accorge invece che in quelle membra piagate e sanguinolente c’è ancora tanta ricchezza. Penso a questa pagina di Vangelo perché in essa ci è presentata un’immagine drammatica del mondo: un deserto in cui sono protagonisti violenti e prepotenti, le vittime innocenti e una gran folla di indifferenti che vedono e passano oltre. Anche il creato è vittima innocente. «E come poi tenerci in disparte di fronte alle prospettive di un dissesto ecologico, che rende inospitali e nemiche dell’uomo vaste aree del pianeta?
O rispetto ai problemi della pace, spesso minacciata con l’incubo di guerre catastrofiche? O di fronte al vilipendio dei diritti umani fondamentali di tante persone, specialmente dei bambini? Tante sono le urgenze, alle quali l’animo cristiano non può restare insensibile» (San Giovanni Paolo II, Novo Millennio Ineunte, 51). Al brigante si contrappongono, per fortuna, le figure del samaritano e dell’uomo/albergatore, coloro che si lasciano contagiare dalla compassione di Cristo, del Maestro, coloro che non temono di entrare nel deserto dell’uomo! Mentre il brigante ci percuote, e il sacerdote passa oltre, il samaritano e l’albergatore si prendono cura: vedono quella fragile bellezza, e temendo ch’essa vada perduta a causa dell’indifferenza e della disumanità, si prodigano affinché quella bellezza possa continuare a vivere e crescere. Viviamo in un deserto! Un deserto che si estende a macchia d’olio; eppure, in questo spaventoso deserto ci sono ancora, fortunatamente, locande. Luoghi in cui provare compassione e trovare spazi di umanità. Il mondo è malato di neoliberismo, esso ha creato un paesaggio umano da incubo; un paesaggio impregnato di solitudine e disperazione.
Ed è proprio per questo che l’umanità di Cristo assume valore eterno.
Sappiamo che il Gesù di Teresa d’Avila è colui «in cui il divino si unisce all’umano ». È importante capire questo: perché anche se la sua è un’umanità glorificata essa, però, non cessa di essere e restare umanità nel senso più autentico del termine. Probabilmente per tale motivo Cristo ci è di compagnia (y es compañía). L’umanità di Cristo, lo sappiamo, è il luogo dell’incontro: Dio viene incontro all’uomo e l’uomo ha accesso nel cuore di Dio. Nell’umanità di Dio il non senso dell’uomo trova un significato, il dolore diventa
via d’incontro con l’assoluto, la sofferenza diventa una sofferenza d’amore a tal punto che Iddio imprime, se lo vuole, i segni di quest’amore (San Francesco, San Pio da Pietrelcina, Gemma Galgani ed altri), che proprio perché è amore teologale diventa un amore che si apre alla speranza. I santi sono entrati nel deserto, restando fedeli a questo Dio che chiede e ricompensa, hanno reso abitale questo territorio presentandolo a Cristo, «da selvaggio che era…, come un luogo santo per la potenza dello Spirito Santo» (cit. Cirillo di Scitopoli, Storie monastiche del deserto di Gerusalemme). È nel deserto che avviene quel processo di divinizzazione; è nel deserto della storia che fiorisce la santità; è nel deserto del cuore che ogni uomo ricomincia a vivere.
In conclusione l’influsso che i testimoni della fede esercitano su di noi è motivo di crescita spirituale verso l’unico Capo e Signore. La devozione particolare per qualcuno di questi fratelli o sorelle è un autentico legame di affetto. Conoscere le vite dei santi è avere dei modelli forti e contro corrente, è entrare, probabilmente, in un orizzonte spesso inatteso e inimmaginabile.
In essi sembra ci sia stata una profonda convinzione, ovvero quella di “completare Cristo” con la propria vita; essi, con la loro esistenza, hanno aggiunto qualcosa, nel deserto del mondo, come spesso capita, a quel mistero d’amore racchiuso nel Cuore di Dio. Questi pensieri, probabilmente confusi, si avviano alla conclusione: abbiamo cercato di riflettere insieme sul deserto; cercando di soffermarci su un significato probabilmente distante da quello al quale siamo abituati: abitare il deserto non significare abitare e permanere nelle personali dinamiche della vita spirituale (cui siamo abituati e a cui facciamo rifermento mediante la lettura dei grandi maestri dello spirito), abitare il deserto, credo essenzialmente voglia dire abitare la propria umanità, questo mondo, il proprio cuore. Questo deserto è un cammino che affascina, che richiede di lasciare sicurezze per affidarci a Lui come unica guida, come unico punto di riferimento, come Padre che si prende cura sempre di ognuno di noi. Così, semplicemente! Come ha fatto con il Figlio!
Andrea Maniglia – Docente di Religione Cattolica, autore di biografie di testimoni di santità.