IL TEMA

giornata della santificazione universale

“Si rallegrino il deserto e la terra arida, esulti e fiorisca la steppa” (Isaia 35, 1).

Due parole chiavi: deserto e speranza, la prima indica la realtà nella quale ci troviamo a vivere; la seconda indica le possibilità di bene e di cambiamento già presenti in essa. In risposta alle indicazioni dell’esortazione apostolica Evangelii Gaudium ed inserito nel percorso formativo quinquennale che il Movimento Pro Sanctitate si propone e propone di vivere, il tema della GSU di quest’anno esprime un aspetto fondamentale della svolta iniziata con il Concilio Vaticano II. La “nuova evangelizzazione” che Papa Francesco ci sollecita fortemente ad attuare ci impone, necessariamente, un nuovo sguardo sulle condizioni di vita dell’uomo contemporaneo. Non uno sguardo disperato, sconfitto o rassegnato, ma uno sguardo di fede… quello sguardo che permette di vedere la vita, nascosta tra le macerie … “speranza”, lì dove tutto parla del suo contrario.

L’ottimismo antropologico che ha motivato e orientato la pedagogia della santità del Servo di Dio Guglielmo Giaquinta non è fondato su idealismi disincarnati o ingenui ottimismi, è fondato sulla certezza della fede: già esistono semi di speranza! Esistono perché Dio c’è. Esistono perché “Dio è più grande del nostro cuore” (1Gv 3, 20). Come riconoscerli? Come non lasciarci schiacciare dalle situazioni difficili, a volte disperate, che l’umanità vive? Come avere cura di questi semi e portarli a maturazione? Come realizzare il “non ancora”, di cui il “già” è portatore di promessa?

A volte, per conoscere il bene bisogna attraversare il male, non nel senso di compierlo ma di conoscerlo. Per riconoscere i semi di speranza è necessario stanare ciò che ostacola il loro compimento. Per questo bisogna andare nel deserto. Ce lo dicono tutti i Padri della fede, ce lo dicono soprattutto con la loro vita.

Il popolo ebraico ha conosciuto il deserto prima di entrare nella terra promessa. Anche per Gesù è stato necessario sperimentare il deserto prima della sua vita pubblica. Senza il deserto l’uomo nuovo non può venir fuori.

Ma cos’è il deserto? La realtà geografica richiama una condizione di aridità, assenza di vita. Il deserto è ciò che il mondo sta diventando, ciò che l’uomo sta diventando.

Papa Francesco ce ne parla così: “È evidente che in alcuni luoghi si è prodotta una “desertificazione” spirituale, frutto del progetto di società che vogliono costruirsi senza Dio o che distruggono le loro radici cristiane. Lì “il mondo cristiano sta diventando sterile, e si esaurisce, come una terra super sfruttata che si trasforma in sabbia”. Anche la propria famiglia o il proprio luogo di lavoro possono essere quell’ambiente arido… Ma è proprio a partire dall’esperienza di questo deserto, da questo vuoto, che possiamo nuovamente scoprire la gioia di credere, la sua importanza vitale per noi, uomini e donne” (EG, 86).

A partire dall’esperienza di questo deserto, da questo vuoto: non bisogna fuggire, bisogna starci! Cosa significa “entrare nel deserto” se non stare nella realtà? Eppure l’evasione è una grande tentazione dell’essere umano! E oggi quello dello stordimento dal dolore è un grande business! Ma se non si diventa capaci di stare nella realtà nessuna crescita è possibile. Stare nella realtà sociale e personale! Nel senso di tenere gli occhi aperti sul mondo e su se stessi, scegliere di capire come stanno veramente le cose e scegliere di conoscersi.

Oggi sono in tanti a dire: “Ma tanto non c’è niente da fare, le cose andranno sempre così, l’uomo è fondamentalmente cattivo e non può cambiare”.

E ci si “oppia” con i tanti mezzi offerti dal mercato, si preferisce vivere in un mondo virtuale che dà l’illusione del benessere, non sapendo che un uomo addormentato può essere facilmente manipolato. Il problema è proprio qui: uno schiavo che si crede libero non sente il disagio delle catene. La virtù della speranza invece non ci tiene fermi ma ci mette in movimento. La speranza cristiana non è quel tipo di speranza che dice: sopportiamo che le cose vadano così perché poi tanto nella vita eterna Dio aggiusta tutto. La speranza cristiana è azione, è fede nel cambiamento, è impegno attivo.

Mi colpisce molto l’analisi attenta e precisa che Papa Francesco fa della situazione odierna, sia nella Evangelii Gaudium e ancor più nella Laudato Si’. Non solo ci insegna “come” guardare e “cosa” guardare, sconfessando una impostazione intimistica della fede – quella del ripiegamento su di sé che impedisce di scorgere e di vivere le povertà dei fratelli – ma ci dà una preziosa chiave di lettura. Lui stesso sostiene di aver compiuto una “riflessione insieme gioiosa e drammatica”: la dura e obiettiva presa di coscienza della realtà e della situazione in cui si trova il mondo non offusca la gioia di poter credere in un cambiamento rivoluzionario e in una nuova umanità. Come non riconoscere quei temi cari al Fondatore del Movimento Pro Sanctitate esposti in “L’amore è rivoluzione” e nella “Rivolta dei Samaritani”?

Da questo esame nascono delle domande conclusive: cosa può fare la Chiesa per affrontare una così complessa e difficile situazione? È suo compito tentare di fare qualcosa o è più saggio che si rinchiuda nella preghiera aspettando che gli uomini, toccato il fondo del male, tornino a sentire il bisogno dell’Unico che può salvarli dalle loro aberrazioni? O, invece, non sarebbe più utile che si inserisse nel vivo della lotta sociale e, prima ancora di rivelare Dio all’uomo, si sforzasse di rivelare l’uomo all’uomo e cioè mettesse, almeno momentaneamente, da parte la divinizzazione dell’uomo per dedicarsi alla sua umanizzazione? Interrogativi complessi a cui è difficile dare una risposta immediata… In ogni caso, un punto appare evidente: se la Chiesa deve continuare l’opera salvatrice di Cristo, essa non può disinteressarsi della tragedia in cui il mondo di oggi si trova sommerso” (G. Giaquinta, L’amore è rivoluzione).

 

Nessun cambiamento sociale può avvenire senza quello individuale! Dunque, entrare nel proprio deserto, “stare nella propria verità” è necessario per scoprire i “semi di speranza” nel proprio essere. Siamo chiamati ad avere uno sguardo di fede anche su noi stessi, scoprendo il bene e il bello che ci abita, spesso nascosti dall’egoismo e dai diversi mali che caratterizzano il nostro percorso di vita. Ma come disse T. Hardy: “Se esiste un modo per raggiungere il meglio, è quello di riconoscere con coraggio il peggio”.

E il deserto ci aiuta in questo.

Quando tutto tace e riusciamo a distaccarci dal frastuono nell’intimo; quando non possiamo aggrapparci più a nulla, né alle parole, né alla musica, né al rumore, e cadono tutte le illusioni che avevamo costruito per proteggerci dal dolore, cosa viene fuori? Viene fuori che quel vuoto che ci faceva tanta paura in realtà è abitato da una Presenza e quindi non siamo soli. Viene fuori che esistiamo perché Dio ci ama e che ci ha creato a sua immagine, dunque siamo meravigliosi.

Viene fuori che abbiamo usato male la nostra libertà, perché ci siamo allontanati da Dio e per questo il male è entrato nella nostra esistenza. Però, cominciamo anche a conoscere più in profondità il nostro male e con ciò proviamo un grande senso di liberazione, perché sperimentiamo che Dio non ci ha abbandonati, ci ha redenti e resi nuovi nel suo perdono.

Viene fuori che il male può essere trasformato in bene e che il nostro deserto contiene innumerevoli possibilità di vita.

Questa è la speranza! Dio è la nostra speranza.

Ma ci crediamo veramente che il Signore ci sta accanto, che il Signore ci vuole bene, che il Signore ci aiuta? Se siamo tanto abili nel ricordare le esperienze negative del passato, gli insuccessi, perché non essere altrettanto abili nel ricordare ciò che Dio ha fatto per noi, il misterioso e meraviglioso disegno che Lui ha operato nella nostra anima? Siamo capaci di vedere il male, non siamo capaci di vedere il bene che Dio opera in noi…” (G. Giaquinta, La speranza).

La pedagogia della speranza che sviluppa in un Corso di Esercizi Spirituali del 1967 traduce ciò che la Parola ci chiede per coltivare il seme della speranza: “Una voce grida: nel deserto, preparate la via al Signore, spianate nella steppa la strada per il nostro Dio. Ogni valle sia innalzata, ogni monte e ogni colle siano abbassati; il terreno accidentato si trasformi in piano e quello scosceso in vallata. Allora si rivelerà la gloria del Signore e tutti gli uomini insieme la vedranno, perché la bocca del Signore ha parlato” (Isaia 40, 3-5).

 

È il lavorio interiore per riequilibrare ciò che in noi non va: “valli” da innalzare (mancanze, vuoti da colmare), “monti e colli” da abbassare (superbia e orgoglio da educare); “terreno accidentato” da spianare (serenità e pace interiore da raggiungere nonostante e attraverso le difficoltà), “terreno scosceso” da trasformare in valli (equilibrio e armonia da raggiungere attraverso gli opposti).

 

Il cuore della proposta della Giornata della Santificazione 2016 è dunque questo: la santità è un cammino di speranza. La speranza del seme che non dubita di poter diventare albero, perché contiene in sé tutto ciò che gli è necessario per esserlo, perché ha fiducia nella terra che lo ha accolto e nel cielo che non smette mai di nutrirlo di luce.

Sonia Chiavaroli   * Segretaria internazionale del Movimento Pro Sanctitate.

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