Luglio, col bene che ti voglio, vedrai non finirà. Brutta o bella che sia una celebre canzone che imperversa da quasi 50 anni è una sorta di inno ufficioso dell’estate italiana. Vogliamo cominciare contraddicendola: luglio finirà, e finirà il sole che fa rima con l’amore sempre in questa melensa ma efficace composizione.
Partiamo da questo, che il sole e la spensieratezza sono dei momenti, non una condizione stabile; un sollievo piacevole semmai, non la felicità. Se provi a ricordarlo, però, subito senti le sardoniche obiezioni dei grandi teorici della “estate permanente”, della “libertà che significa fare quello che si vuole”.
È strana questa perversione delle parole che fa delle più nobili e significative di esse dei sinonimi di tutto quanto c’è di peggio: dicono coraggio e intendono fuga; libertà, e intendono ancora fuga; amore, e parlano di buio narcisismo. In funzione dei mille e mille moltiplicatori economici di tali stati d’animo cui siamo sollecitati si costruisce una morale del discorso pubblico che si direbbe vocata al ribasso.
E noi? Dobbiamo allora essere proprio noi, all’inizio dei mesi di vacanza, dei mesi estivi, a fare la faccia triste, a ricordare austeramente a tutti l’inverno che ci attende, a scivolare in un “doverismo”, in una “dottrina fredda e senza vita”?
Proprio qui, si direbbe, casca l’asino. Se non ci liberiamo di un ‘normativismo’ di tipo giuridico certamente rischiamo di difendere una ‘dottrina’ la quale facilmente diventa ‘senza vita’. Il Servo di Dio Guglielmo Giaquinta, parlando dei fondamenti della Speranza, ci ricorda le parole di Paolo 1Cor 10: “Nessuna tentazione superiore alla forze umane vi ha sorpresi; però Dio è fedele e non permetterà che siate tentati oltre le vostre forze; ma con la tentazione vi darà anche la via di uscirne, affinché la possiate sopportare”.
Si tratta di prendere sul serio la polizza assicurativa stipulata una volta per sempre sul Calvario; si tratta di restare sempre connessi, come molto spiritosamente ha ricordato il Santo Padre ai ragazzi nel Giubileo loro dedicato: “se non c’è Gesù, non c’è campo, non si riesce a parlare e ci si rinchiude in se stessi”. Infatti – prosegue Giaquinta nello stesso scritto – “Non una qualche cosa, più o meno, magari abbozzata, non determinata, non perfezionata… No, nulla. Senza di me non potete fare nulla (Gv 15, 5).
La Beata María de los Ángeles è fucilata senza alcun’altra motivazione se non quella di essere una suora. Le cronache parlano ogni giorno, nonostante luglio il bene che ti voglio, di migliaia di cristiani scannati che affrontano il martirio senza prendere in considerazione l’apostasia che pure viene loro offerta. Dobbiamo credere che si tratti di supereroi o non piuttosto che, come ben scritto, non ci si improvvisa martiri? È ancora il Fondatore che ce lo ricorda: Dio non comanda mai ciò che è impossibile. “Il famoso agere contra, di cui tante volte vi ho parlato, e che non suona sempre molto gradito, è condizione per la formazione della volontà”.
Queste considerazioni in ogni tempo valide tanto più lo sono per il nostro, in cui il compiacersi della debolezza umana è diventata quasi una ideologia dolciastra di auto perdonismo universale. Che è il contrario della Misericordia nel cui nome si celebra questo Anno Santo. “Qui bisogna saper dire dei no. Se tu non sai dire di no, non sei libero. Libero è chi sa dire sì e sa dire no. La libertà non è poter sempre fare quello che mi va: questo rende chiusi, distanti, impedisce di essere amici aperti e sinceri; non è vero che quando io sto bene tutto va bene. No, non è vero”. (Papa Francesco, Omelia, 24 aprile 2016)
Insomma, ecco che l’editoriale per i mesi estivi ha finito ugualmente per assumere toni austeri e cantare “tristi canzoni accanto alla stagno nero”. E invece no. Intanto, e ce lo ricorda il Santo Curato d’Ars, “se sapessimo quanto Nostro Signore ci ama, moriremmo di gioia! Non credo che ci siano cuori così duri da non amare, vedendosi tanto amati…”.
Se dunque ci sentiamo amati e sentiamo di amare, si tratta di trasmetterlo non con tristi canzoni attorno allo stagno, ma seguendo gli articoli di quello stesso contratto amoroso stipulato per iniziativa del Padre; istruzioni in merito possiamo per esempio leggerle in Amoris Laetitia, 93: “San Paolo vuole insistere sul fatto che l’amore non è solo un sentimento ma che si deve intendere nel senso che il verbo ‘amare’ ha in ebraico, vale a dire: “fare il bene”. Come diceva Sant’Ignazio di Loyola, l’amore si deve porre più nelle opere che nelle parole”.
La sfida che ci pone il Giubileo della Misericordia che continua il suo corso, è quella di annunciare in opere la gioia della operosa misericordia del Padre, che ha tanto amato il mondo da dare il Figlio unigenito. Forse i santi sono solo quelli che hanno inteso fino in fondo la “gioia piena” di cui parla Gv 15, 11. Forse la vocazione alla santità è in fondo solo rispondere ad un invito a danzare come il Re Davide mille volte perdonato.
Certo è che non siamo vicini ad alcuno stagno nero. “Hai mutato il mio lamento in danza, mi hai tolto l’abito di sacco, mi hai rivestito di gioia”.
Alberto Hermanin