“Nyaatha” vuol dire “madre misericordiosa, donna tutta compassione”: questo il nome che i fratelli del Kenya hanno dato a suor Irene Stefani, missionaria della Consolata morta a 39 anni il 31 ottobre 1930.
Nasce nel 1891 ad Anfo (Brescia) da Giovanni e Annunziata Massari, Mercede il suo nome di battesimo. Educata in ambiente fervidamente religioso, manifesta già da adolescente il desiderio di essere missionaria. La prudenza del padre e la mancanza prematura della mamma la portano alla soglia dei vent’anni (1911), quando aiutata dal suo parroco entra nell’Istituto delle Missionarie della Consolata che iniziava i suoi primi passi a Torino guidato dal suo fondatore il beato Giuseppe Allamano (1851-1926).
Dopo la vestizione religiosa e il tempo del noviziato nelle mani dello stesso fondatore emette i voti, qualche mese dopo è già in partenza per l’Africa dove giunge il 31 gennaio 1915.
Evangelizzare il Cristo della Pasqua era il suo unico obiettivo: Gesù crocifisso per salvare tutti gli uomini, Gesù risorto per offrire speranza a tutti i popoli. Sapeva bene che se si annuncia Cristo tutto l’uomo ne riceve beneficio, anche quelle dimensioni tanto concrete che riguardano la vita economica, la cultura, la sanità.
Al suo arrivo suor Irene non trova certo strutture missionarie già molto efficienti, piuttosto l’inesistenza di scuole e servizi sanitari. È in questi due settori che si articola l’impegno missionario della nostra beata.
Dal 1915 al 1920 nei cosiddetti ospedali militari, che erano stati allestiti soprattutto per accogliere i portatori africani che trasportavano materiale bellico nella Prima Guerra mondiale, i malati erano ammassati e spesso abbandonati a se stessi. Lì suor Irene – prima a Voi, poi a Kilwa e a Dar-es-Salaam in Tanzania – lavava e medicava piaghe, distribuiva cibo e medicine, cercava di creare un clima vivibile tra medici e ammalati, addolciva con i suoi atteggiamenti sorveglianti spesso crudeli e musulmani a volte violenti.
Dal 1920 al 1930 è impegnata nell’insegnamento nella missione di Gekondi, infondeva entusiasmo per la scuola e per il catechismo, offriva anche lì attenzione ai malati e in particolar modo alle donne che davano alla luce i propri piccoli. Il suo impegno essenziale era instradare le giovani suore appena arrivate perché vivessero la missione con la gioia del Vangelo e la passione per i fratelli loro affidati.
La vita interiore di Irene era intensa e alcune delle sue frasi scritte come appunti la esprimono bene.
“Dolcezza, affabilità grande, molta, molta pazienza”: questo il motto che l’ha guidata.
“Il peccato ricrocifigge Gesù. Meglio mille morti che un solo peccato”
“Dimenticare tutto… vuotarsi di noi stessi…”
“Missionaria uguale ad apostola, vergine, martire…”
“Gesù! Se avessi mille vite le spenderei per te”
Erano questi i sentimenti che animavano la carità di suor Irene, che la facevano riconoscere come ‘madre misericordiosa’, che l’hanno portata all’offerta totale di se stessa per le missioni.
Le consorelle raccontano che un giorno Athiambo, che si stava preparando al battesimo, era sulla spiaggia insieme a tanti morti, lei lo trova, lo battezza. Un altro figlio di Dio, come i circa 4.000 battezzati da suor Irene.
La reliquia che esprime al meglio la vita di suor Irene è quella dei suoi scarponi, con questi ha percorso chilometri e chilometri, in qualunque ora del giorno e della notte, per raggiungere fratelli a cui annunciare Gesù.
Durante gli esercizi spirituali del settembre 1930 matura il desiderio di offrire la sua vita e la sua superiora le nega questo permesso, anche perché nel frattempo a Gekondi infuriava la peste. Poi si arrende ed ecco la missionaria aggirarsi tra i malati per assistere i loro corpi e curare le loro anime. Li andava a cercare, come ha fatto con l’uomo dal quale ha contratto la malattia che il 31 ottobre la conduce alla morte.
Suor Irene riposa nella cappella della parrocchia di Mathari, Nyeri (Kenia) custodita dai missionari della Consolata, lì è venerata, vicino alla Dedan Kimathi University dove nel maggio 2015 è stata beatificata.
È emerso chiaro che suor Irene per i suoi africani non è morta di malattia ma d’amore, d’amore per loro.
Ed è frutto d’amore il miracolo dell’acqua. È il 10 gennaio 1989, nel villaggio di Nipepe (Mozambico) ed è l’ora della Messa. I miliziani della Renamo, che da anni combattono i filomarxisti del Frelimo, con un blitz scatenano il terrore: urla, spari, violenze… circa 230 persone scappano in chiesa e comincia l’assedio. Padre Frizzi, il parroco, promuove una preghiera rivolta a suor Irene, erano senza cibo e senza acqua! Ed ecco che l’acqua del fonte battesimale ha dissetato tutti senza esaurirsi per molti giorni, e i fratelli che erano stati portati via ritornano raccontando ‘miracoli’ che avrebbero salvato le loro vite da esecuzioni sommarie, campi minati… è un miracolo collettivo: suor Irene continua ad essere ‘madre misericordiosa’.
Teresa Carboni