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Gioia di vivere il Vangelo? Cominciamo, intanto, con “gioia”. C’è in verità poco da stare allegri. Si sa della crisi economica (in realtà, crisi finanziaria, cioè crisi della fiducia di poter continuare ad espandere l’economia, ad espandere i bisogni per poterli soddisfare in modo sempre più tecnologicamente avanzato, in una sorta di sabba demoniaco…. ma lasciamo stare). Sì, la crisi. C’è poi la crisi ambientale: dopo esserci preoccupati molto per salvare la tigre dagli sviluppi tecnologici, si comincia (davvero?) a pensare di salvare noi stessi. Appellandoci per lo più alla stessa tecnologia che ha determinato la crisi, anche qui in una sorta di sabba, di un gigantesco serpente che morde la propria coda “La bufera infernal, che mai non resta, mena li spirti con la sua rapina; voltando e percotendo li molesta. Quando giungon davanti a la ruina, quivi le strida, il compianto, il lamento; bestemmian quivi la virtù divina1.

Ma tralasciamo scenari politico-economici, provando a concentrarci su un dato individuale, la gioia. Gioia? “Il grande rischio del mondo attuale con la sua molteplice e opprimente offerta di consumo è una tristezza individualista che scaturisce dal cuore comodo e avaro, dalla ricerca malata di piaceri superficiali, dalla coscienza isolata. … (Allora) non palpita l’entusiasmo di fare il bene” (EG, n. 2).

Ma non palpita nemmeno, paradossalmente, l’entusiasmo di fare il male.

Entusiasmo infatti è, sin dall’etimologia, “essere” “in” “dio”. Non necessariamente il nostro Dio, ma comunque in una condizione “divina”, cioè di partecipazione “in o con” un soggetto altro. Proprio quello che si vede sempre meno nei quadri che ci presenta il tempo che viviamo.

In realtà, la stessa ideologia dei diritti, piegata dal proteo capitalista, sembra passata dalla bella dichiarazione americana “noi riteniamo di per sé evidente …che ogni persona nasce libera”, in un più concreto “NOI crediamo che solo IO sono nato libero”. Dunque, io. Sopravvive qua e là una dimensione sociale – vogliamo chiamarla togetherness come la definiscono alcuni sociologi – in ambiti collettivi strettamente collegati a occasioni di consumo che si avvantaggiano della moltiplicazione delle presenze (stadi, concerti, discoteche, flash-mob, ma anche, e propriamente, gli strumenti della comunicazione sociale, e così via).

Una considerazione accessoria, ritenuta utile: ci si vuole soli, ci si vuole atomizzati, destrutturati, privi di coordinate identificative, liquidate come gabbie impeditive della libertà anziché, come sono, strumenti del suo dispiegarsi? C’è un disegno in tutto questo?

Difficile affermarlo per mancanza di prove cogenti e razionalmente dimostrabili; impossibile però negarlo per l’evidenza del buon senso. Alcuni di questi processi di destrutturazione psicologica e antropologica, come per esempio quello messo in atto dalla teoria gender sono così sfacciatamente tutelati e incoraggiati dalla crema dei poteri forti (quelli che presidiano assai più di qualunque Stato la presunta “modernizzazione” in corso) che il sospetto complottista per altri versi paranoico e ridicolo si profila quasi come razionale e convincente…

Fine della considerazione accessoria; quale “gioia” in questo sfondo? Si è cercato di dipingere prima lo sfondo, il paesaggio culturale, il “fenomeno di lunga durata”2 che abbiamo di fronte e cerchiamo di decrittare. Quale gioia potremmo ora abbozzare nel primo piano del dipinto, del bassorilievo che osserviamo? Per la verità, come si diceva in apertura, c’è poco da stare allegri.

Con buona pace di questa terribile “crisi economica”, siamo tuttora, oggettivamente, le persone più al sicuro nella storia dell’umanità: ma questo non impedisce il dilagare della paura. Vale a dire il contrario della gioia. Lasciamoci andare a qualche particolare avvenimento confermativo della tendenza profonda3: ecco per esempio il matrimonio, sempre più vissuto come rito di passaggio faticoso anziché quale “festa”, cioè liberazione e comunicazione con l’altro da sé. A furia di scherzare su di esso come trappola e tomba della libertà individuale, è oggi dato riconoscere che quelle che sembravano battute di spirito – proprie di una maturità consapevole che, ad un dato momento, bisogna pur decidersi a fare delle scelte e ad assumersene rischi e responsabilità – sono diventate, invece il comune sentire, o quasi. Su tutti, sopravanza sempre di più il sentimento, appunto, della paura: sulla quale, beninteso, si costruisce una apposita industria culturale: addetta, si direbbe, alla rimozione, volendo usare una espressione propria della psicologia4.

 

Si vorrebbe, ora, rovesciare la tavolozza raffigurata, vederla per così dire in negativo come ai tempi delle fotografie fatte con il rullino: per scoprire che in realtà la gioia non è uscita dal mondo e i processi di de-umanizzazione non hanno affatto vinto la partita. Allo scopo, si potrebbero citare mille e mille eventi, avvenimenti e soggetti che dimostrano nei fatti di essere tutt’altro che succubi di questo ‘processo di lunga durata’, che anzi fanno del loro meglio per contrastare, e di fatto lo smentiscono, rinnovando quotidianamente la “tradizione”, vale a dire la consegna del ricevuto in termini di identità, di responsabilità, di libertà, di maturità. E di comunità, di socialità; per dirla in due parole: di spirito e di amore.

Sarebbe tuttavia un grave errore se, nel considerare questa tavolozza che veniamo abbozzando, i cristiani si fermassero alla ricerca dei numeri sociologici di conforto. Talvolta lo fanno molti volenterosi, anche in piena buona fede: magari rivendicando, come capita di udire sui giornali o telegiornali l’elevato numero di persone che partecipa alla Messa di Natale o simili amene quanto inconsistenti divagazioni rispetto a quello che invece è, ci sembra, il tema centrale.

Che è la gioia di vivere il Vangelo. E per dirla con il Santo Padre, “un evangelizzatore non dovrebbe avere costantemente la faccia da funerale”. Andiamo più in là e affermiamo che, semplicemente, se si ha una faccia da funerale non si sta vivendo il Vangelo, e la sua gioia. Attingiamo alla saggezza del Servo di Dio Guglielmo Giaquinta: “Se realmente crediamo in Cristo, se abbiamo trovato la nostra felicità in Lui dobbiamo emanare, ispirare gioia”. Se questo non facciamo, è segno che povera è la nostra fede: altro che sociologia.

Sagacemente, bisogna pur dirlo, scrive un grande nemico del cristianesimo, Friedrich Nietzche: “hanno pensato di vivere come cadaveri, vestendo di nero il proprio cadavere. E chi vive vicino a loro, vive vicino a neri stagni, in cui il rospo canta la sua canzone con dolce malinconia. Dovrebbero cantarmi canzoni migliori, perché imparassi a credere nel loro Redentore; dovrebbero apparirmi più redenti i suoi discepoli”!5

Ecco, a proposito di rovesciare la prospettiva, come si diceva sopra, si osservi quale straordinaria lezione ci viene da questo “anticristo”: che andrebbe letto, in questa pagina, in tutte le parrocchie ogni santa domenica.

Non dunque la sociologia e le variamente ordinate specie numeriche ci faranno tornare il sorriso, pur in presenza di questo sfondo, diciamolo pure bastantemente tragico: ma la risposta all’amore del Padre, quella sì.

Si scrive, si ragiona, si comunica, si predica, sembra, descrivendo processi oggettivi; ci si astrae o ci si nasconde dalla qualità di narratori, si vorrebbe quasi agire, sì, nel discorso, ma poi insieme “non esserci”. Naturalmente, è impossibile. In verità, sempre e in ogni caso, “de nobis loquitur”, parliamo di noi. E così è nata anche questa modesta riflessione che si offre all’indulgenza dei Lettori: il tema della Gioia di vivere il Vangelo mi ha fatto sovvenire che, in occasione del mio venticinquesimo anniversario di matrimonio, amici del Movimento Pro Sanctitate mi regalarono una immagine di quel “Cristo del sorriso” di cui parla il Fondatore in una sua preghiera. Il quale, ci rammenta in altro contributo Cristina Parasiliti, non è il Cristo pasquale, ma quello crocifisso e morente.

In Te Domine speravi, non confundar in aeternum! Si è grati a chi, tra i figli spirituali del Servo di Dio, ci ha evidenziato, illuminato e reso più visibile questo sorriso.

Alberto Hermanin Capo Redattore di Aggancio

1 Divina Commedia, Inferno, canto V, 31-36

2 Traggo questa espressione dalla storiografia annalistica; essa sostiene non infondatamente che l’analisi dei fenomeni storici – fra cui rientra evidentemente anche la contemporaneità – deve partire dai fenomeni, dai comportamenti e dai costumi di lunga durata che caratterizzano l’epoca assai più degli “avvenimenti” pubblici o istituzionali. Nel nostro caso, più che di lunga durata in senso stretto, vista la straordinaria velocità di evoluzione della contemporaneità, sarebbe forse il caso di parlare di fenomeni di larga portata ed incisività.

3 Vedi nota sopra

4 Il sociologo Zygmunt Bauman ha spiegato la postmodernità usando le metafore di modernità liquida e solida. Secondo lui l’incertezza che attanaglia la società moderna deriva dalla trasformazione dei suoi protagonisti da produttori a consumatori. Si legano in tal modo concetti quali il consumismo e la creazione dei “rifiuti umani”, la globalizzazione e l’industria della paura, lo smantellamento delle sicurezze e una vita “liquida” sempre più frenetica e costretta ad adeguarsi alle attitudini del gruppo per non sentirsi esclusa. L’esclusione sociale elaborata da Bauman non si basa più sull’estraneità al sistema produttivo o sul non poter comprare l’essenziale, ma sul non poter comprare per sentirsi parte della modernità. Secondo Bauman il povero, nella vita liquida, cerca di standardizzarsi agli schemi comuni, ma si sente frustrato se non riesce a sentirsi come gli altri, cioè non sentirsi accettato nel ruolo di consumatore. Una delle più acute analisi critiche della mercificazione delle esistenze e dell’omologazione planetaria. Soprattutto in Vite di scarto, Dentro la globalizzazione e Homo consumens.

 

5 Così parlò Zarathustra vol 1, Milano, Adelphi, 1984, pag 109, citato in Civiltà Cattolica, 4 aprile 2015, n.3955, pag. 33.

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