O mamma mia santa Maria Goretti! Il nome stesso di questa santa (1890-1902) evoca spesso un sorriso, a dispetto della sua tragica vicenda: sembra l’icona di valori irrimediabilmente superati dai tempi, vergine e martire, magari “devota e repressa”. I più colti aggiungeranno al sorriso per questo anche quello relativo alle diverse volte in cui autorevoli esponenti del Partito Comunista, sembra da Togliatti allo stesso Berlinguer, hanno indicato Maria come un modello da seguire da parte delle giovani militanti di quel partito, non a torto definito da qualcuno un “partito-chiesa”.
Forse inutile ricordarne la vicenda: figlia di una numerosa famiglia contadina di condizioni alquanto misere, che la fame aveva spinto dalle natie Marche all’emigrazione nel Lazio; presto orfana del padre stroncato dalla malaria allora sovrana incontrastata della zona litoranea pontina, si ritrova con madre e diversi fratelli a campare assai precariamente solo grazie alla condivisione della mezzadria con un’altra famiglia composta di padre e figlio, anch’essi mezzadri.
Il quadro descritto nei tanti documenti che riguardano Maria Goretti fa emergere una realtà sociologica di miseria e denutrizione cronica. Cui, come sembra inevitabile, si accompagnano una condotta bestiale da parte di chi, avendo la forza bruta dalla sua, non si trattiene dall’esercitarla. La madre sottoposta a pressioni sessuali – e non solo – dal padre dell’altra famiglia; la figlia Maria infine, di cui numerosissimi testimoni hanno accertato l’assidua frequentazione della Messa e una ingenua volontà di purezza, ammazzata in un tentativo di stupro, cui resiste con disperata determinazione.
Una storia, si sarebbe detto qualche tempo fa, brutta sporca e cattiva, che appunto sa di miseria e degradazione. Oggi il Papa Francesco la descriverebbe certamente come esempio di quella “periferia” tanto cara al suo vocabolario pastorale. Sembra addirittura che nelle prime dichiarazioni rese ai carabinieri dal suo assassino questi, ammettendo il delitto, abbia affermato che rispetto alla vita che conduceva la prospettiva del carcere gli sembrava allettante.
Il 5 luglio 1902, dopo averla attirata in casa con una scusa qualunque, il suo assassino, che già aveva tentato ripetuti approcci sessuali con questa ragazza di 12 anni, che sempre lo rifiutava adducendo di non voler peccare, la pugnala più volte senza riuscire a portare a termine la violenza.
Ancora viva, Maria diceva alla madre il suo perdono dell’assassino. Lei, che sembra avesse insistito per comunicarsi un anno prima del consueto, e che si recava a Messa con faticose camminate, spirava il giorno seguente, dopo aver ricevuto i sacramenti.
Il suo omicida sarebbe rimasto in carcere per ventisei anni. Durante la detenzione nel carcere di Noto, a quanto pare incoraggiato dal vescovo, inizia un cammino di conversione; racconterà di avere avuto delle visioni in cui la sua vittima gli offriva dei gigli (simbolo di purezza). Come che sia, quando uscì dal carcere si recò a chiedere perdono alla madre di Maria, che lo concesse. In segno di riconciliazione cristiana, presero insieme la comunione nella notte di Natale del 1928.
Proprio una storia edificante. Fin troppo perfetta: la giovane povera ma di robusta tempra morale, il martirio nel nome della purezza, un colpevole perdonato e pentito, una riconciliazione da manuale di catechismo di una volta, la finale glorificazione in mille e mille santini, l’enorme popolarità presso i fedeli cattolici specie delle classi più umili, una popolarità che deborda anche i limiti della Chiesa per essere adottata, come si è detto, da realtà associative le più lontane; salvo poi, come prevedibile, finire nel tritacarne della critica che in nome della emancipazione e del “realismo”, e magari anche dei mitici diritti legati alla così detta “rivoluzione sessuale” degli anni ’60 e ’70, si fa beffe dell’intera vicenda, dei suoi protagonisti, della immensa mole di materiale “pio” che la circonda.
Solo che la vicenda, a dispetto di tutto è, molto semplicemente, vera. È vero che una creatura di dodici anni resiste per mesi alle profferte sessuali di un diciottenne, forte della sua fede ingenua quanto si vuole ma pure capace di determinarne la ferrea condotta. È vero che questa stessa bambina – e chiamiamola col suo nome – si fa letteralmente uccidere per non cedere alla violenza di una aggressione brutale: a proposito delle tante corbellerie che si dicono sui media riguardo ai “femminicidi”. È vero che in piena coscienza e consapevole di dover morire entro poche ore, perdona il suo assassino. Ingenua e retrograda quanto si vuole da parte di una sensibilità moderna (cosa ci sia poi di poco moderno nel resistere ad uno stupro o anche nel perdonare il proprio assassino, ce lo devono spiegare), è evidente che qui la Parola di Dio è caduta su terreno fertile. Si noti, con la nostra sensibilità moderna e molto determinata dai mass media, che il perdono questa ragazzina analfabeta non l’ha pronunciato ad un grande funerale di stato davanti alle telecamere e a centinaia di giornalisti ben disposti, non l’ha postato su facebook per farlo diventare virale, ma l’ha sussurrato ad una madre sul letto di morte in un ospedalaccio di campagna, molto probabilmente quasi una stamberga.
In altre parole, quel che la vicenda di Santa Maria Goretti dice a noi è che la santità è possibile. Maria non ha ricevuto educazione cristiana alcuna, salvo la più elementare e destinata agli analfabeti più umili, alla carne da cannone. Eppure sì, è santa; dottori, professori, sociologi, intellettuali sogghignanti e onniscienti, teologi di complessa quanto troppo spesso elusiva erudizione: tutti pieghino il capo di fronte a lei, al suo martirio, all’immediato riscontro che esso ha avuto nel popolo di Dio (lo diceva Tertulliano: il sangue dei cristiani è seme).
Il Papa Pio XII la canonizzava il 24 giugno 1950 sulla Piazza san Pietro, di fronte ad una folla immensa, alla presenza della sua mamma. La Chiesa la venera il giorno del suo dies natalis, il 6 luglio.
Santa Maria Goretti, umile piccola sorellina, anche tu messa in croce come il nostro più grande Fratello, prega per noi, saccenti e presuntuosi adulti che “sanno tutto”.
Alberto Hermanin