Il Servo di Dio Oscar Arnulfo Romero (1917-1980) sarà presto Beato, secondo quanto ha di recente annunciato il postulatore della causa, Monsignor Vincenzo Paglia.
Parlare di Romero è obiettivamente pericoloso. L’uomo e il suo destino sono stati caricati da una mole schiacciante di invocazioni e anatemi, generati dalla passione politica – il che, diciamo subito, non è necessariamente un male – come anche da quella più propriamente evangelica. Arcivescovo di Santa Romana Chiesa, Romero è già venerato come martire dalla confessione anglicana e da quella luterana.
Non si vuole qui riprendere un suo dettagliato profilo biografico; nato da una famiglia modesta del Salvador, dopo studi al seminario di San Miguel fu inviato a Roma dove studia alla Gregoriana. Sacerdote nel 1942, infine vescovo nel 1970, nel 1977 è nominato Arcivescovo di San Salvador. Il 24 marzo 1980 muore fulminato da una mano assassina mentre levava l’Ostia nella consacrazione, nella cappella di un ospedale di San Salvador.
Ricordiamo piuttosto come furono descritti – buona parte della documentazione su di lui è tuttora di questo orientamento – i suoi forse abbastanza presunti dissapori con la Chiesa romana e con una parte dello stesso clero salvadoregno, forse più cauto rispetto alle implacabili denunce della intollerabile situazione di quel Paese che Romero svolgeva quotidianamente e che finirono per procurargli la morte.
I poveri, i desperados in condizioni di miseria e di fame addirittura inconcepibili nel nostro opulento occidente, vittime della violenza più efferata e continua, lo vedevano certamente come loro difensore, senza implicazioni ideologiche. La sua fine, ovviamente, fu utilizzata politicamente, come era largamente inevitabile, dai nemici del regime salvadoregno, un regime del resto indifendibile sotto ogni aspetto, anche non ideologico.
Ora la Chiesa concede a questo martire, ucciso “in odium fidei” l’onore degli altari. Dissapori o no, San Giovanni Paolo II, accusato di essere fra i suoi nemici in una cospicua opera di mistificazione ideologica lungamente protrattasi, oltre a rendere omaggio alla sua tomba, inserì personalmente il suo nome nella celebrazione dei nuovi martiri nel Giubileo del 2000.
Forse è il caso di trascurare le polemiche – cui non si poteva però non fare cenno parlando di Monsignor Romero – per lasciare che a noi parli direttamente la sua vita, come la sua morte, in una parola il suo “servizio”, alla Chiesa, al popolo di Dio, al suo Paese e infine, come sempre in questi casi, a tutta l’umanità.
Martire della fede: assassinato da elementi paramilitari che conducevano – in combutta con il regime – una spietata opera di repressione che sotto la foglia di fico della lotta al comunismo celava solo la volontà omicida di conservazione di uno status quo di sopraffazione e di violenza. Cosa dice a noi il martirio di questo Vescovo di un Paese tanto lontano, non solo per i chilometri ma per la realtà sociologica e storica?
“Che cos’è la verità che i martiri testimoniano? La vita di Romero era radicata nella Parola di Dio, una parola di amicizia. Invita ad aprirci, per essere liberati dall’ossessione di sé. Ci chiama a crescere e a trovare la felicità in un amore che non conosce confini. Il cristianesimo non è una spiritualità inoffensiva… Non è accendere una candela… Non è un accessorio stile di vita o un po’ di legame sociale. È la pazza follia di essere raggiunti da un amore che è infinito. Se no, non è niente”. (Padre Timothy Radcliffe, già maestro generale dei domenicani).
Sarebbe tuttavia un errore rinchiudere il nostro ricordo di questo Servo di Dio nei termini di un eroismo magniloquente – termini, diciamolo pure, magnifici, ma allo stesso tempo, un po’ angusti. Il martirio è testimonianza, di cui la finale effusione del sangue non è che la corona. Sotto di essa ci sono i mille fili di quel “martirio bianco” – così lo definiva un “collega” di Romero, il Vescovo di Orano Pierre Claverie, martirizzato nel 1996 – che “è ciò che uno cerca di vivere ogni giorno, il dono della propria vita goccia a goccia”.
Cosa dice a noi? Lo stesso padre Radcliffe, predicando sul martirio nel suo Paese, ha osservato argutamente: “È passato molto tempo da quando dei cristiani sono morti per la loro fede nel nostro paese. È forse perché la Gran Bretagna è così tollerante o perché siamo così innocui? Forse un po’ entrambe le cose”.
Entrambe le cose: forse siamo davvero un po’ troppo innocui. Per esempio, la paura di essere strumentalizzati politicamente – paura legittima, come proprio il caso di Monsignor Romero bene illustra – ci fa talvolta essere un po’ troppo innocui. Quando questo pericolo viene scansato, ecco sorgere l’altro, cioè l’attacco che forze politiche che si dichiarano magari amiche di non meglio precisati “valori cattolici” non si privano di condurre contro questo o quel Vescovo. Certo da noi non ci sono squadroni della morte, ma si potrebbe stilare un lungo elenco di presuli attaccati dalla politica: e tanto per essere chiari, si parla di attacchi che provengono, per motivi diversi, da tutti gli schieramenti politici. Il Vangelo è così, segno di contraddizione; senza poi escludere che casi di imprudenti atteggiamenti possano esserci e ci siano.
Secondo quanto si legge, la nomina di Monsignor Romero a Vescovo fu inizialmente accolta con un certo favore dal regime del Salvador, che si riteneva calunniato da molti esponenti della Chiesa. Ci si aspettava forse da lui che la prudenza si trasformasse in acquiescenza. Così, evidentemente, non fu. Il 23 marzo 1980, in una predica aveva lanciato “Un appello speciale agli uomini dell’esercito… Nessun soldato è obbligato a obbedire a un ordine contrario alla legge di Dio… In nome di Dio, e in nome di questo popolo sofferente i cui lamenti salgono fino al cielo ogni giorno più impetuosi, vi supplico, vi scongiuro, vi ordino in nome di Dio: cessi la repressione!”.
Il giorno dopo veniva scannato sull’altare mentre celebrava il sacrificio eucaristico: “questo è il mio corpo, che è dato per voi”.
Alberto Hermanin