Senso di una rubrica
“A me basterà che quanti vogliono conoscere la verità dei fatti accaduti e di quelli che, secondo la natura umana, accadranno uguali o simili ad essi giudichino utile la mia storia”. Sono le parole che lo storico greco Tucidide dedica alle ragioni della sua opera. E forse non è inutile che la nostra modesta finestra di riflessione sugli eventi del mondo in cui viviamo, visti in una prospettiva di fede, parta proprio dalle considerazioni di un uomo di più di 2400 anni fa.
Prima infatti di addentraci nella descrizione di questo o quel fenomeno contemporaneo è opportuno che si stabilisca una sorta di intesa preventiva: come guardiamo la storia in una prospettiva di fede? (Anche la cronaca di ieri e di oggi, è storia).
Ed è proprio sul senso della storia che il cristianesimo introduce un concetto di incalcolabile importanza, quello della storia Salutis, storia della Salvezza. Come nel passo di Tucidide, il mondo classico ha della storia una concezione “ciclica”: gli avvenimenti accaduti “accadranno uguali o simili ad essi secondo la natura umana”. Al contrario, la cultura cristiana introduce nella visione della storia un disegno provvidenziale che misteriosamente guida gli uomini verso un destino salvifico. Insomma la vicenda umana – riscattata dall’incarnazione che sviluppa il seme già piantato nell’alleanza mosaica – viene inserita nell’assoluto divino e acquista un preciso “senso”. La sua fine nel senso cronologico coincide con il fine di essa, la Parusia, il ritorno del Signore.
Questa concezione resta nel fondo della coscienza europea e occidentale anche quando essa progressivamente si “laicizza”. Permane infatti, pressoché intatta fino ai dibattiti filosofici odierni, la necessità di attribuire un “senso” alla storia. Nella modernità, tale “senso” viene individuato nel concetto di ‘progresso’.
Attualmente, dopo secoli di apparentemente trionfale “progresso dell’idea di progresso”, essa sembra entrata in una crisi profonda, prevalendo sempre più una convinzione di fondo che lascia al caso una parte determinante del divenire, anche di quello storico: in sintonia del resto con quanto accade nelle scienze naturali, sempre più implacabilmente nemiche di qualsiasi finalismo cui viene negata addirittura l’affidabilità scientifica.
A noi: che siamo stati e siamo disposti ad abbracciare senza tentennamenti la teoria del “progresso”, che è nostra; ma che per noi è saldamente ancorata nell’annuncio sconvolgente e gioioso che Dio si è fatto uomo, e continua ad essere presente nella storia di ogni uomo. Ne discende l’impossibilità di ogni pessimismo cosmico, che però è purtroppo dato di ritrovare in tanti cristiani. Come opportunamente ricordato nel tema dell’anno, la storia degli uomini è davvero storia di Dio.
“Non siate mai uomini e donne tristi: un cristiano non può mai esserlo! Non lasciatevi prendere mai dallo scoraggiamento! La nostra gioia nasce dall’aver incontrato una Persona: Gesù, che è in mezzo a noi; e, per favore, non lasciatevi rubare la speranza! (Papa Francesco, omelia del 24 marzo 2013, domenica delle Palme).
Ce l’hanno con noi?
Una premessa, o meglio due: il fenomeno di cui si vuol parlare è presente sulla stampa non solo cattolica; in tutto il mondo esistono osservatori che denunciano le persecuzioni subite dai cristiani in molti paesi a motivo della loro religione, ovvero le ostilità e le discriminazioni verso di essi. È un tema di vasta portata, non suscettibile di un trattamento adeguato nei nostri spazi. Esistono d’altra parte pubblicazioni le più diverse per approfondirlo (ne citiamo una per tutte: wwww.intoleranceagainstchristians.eu). E tuttavia ci pare utile proporre almeno qualche traccia di riflessione su un fenomeno così imponente.
L’altra premessa: non siamo mossi da voluttà vittimistiche, e non intendiamo porgerci con il dito accusatore: i fatti sono già abbastanza eloquenti. Sia detto qui una volta sola, per chiarezza: sappiamo benissimo che il cammino terreno della nostra religione è cosparso anche di crimini non dissimili da quelli che oggi si denunciano ai nostri danni. Il problema non è una disamina degli errori o degli orrori dei cristiani nei secoli, ma ciò che avviene oggi, e cioè in un mondo completamente diverso da quello delle Crociate o dell’Inquisizione spagnola.
Un mondo in cui migliaia di cristiani, come si sa, perdono la vita a causa del loro essere cristiani. Specialmente in due continenti, l’Asia e l’Africa. Il persecutore spesso ha qui un nome ben noto, è l’estremismo islamico: sul quale non ci soffermiamo se non per ricordare come esso contraddica le stesse indicazioni coraniche sul trattamento da riservare ai popoli del libro. Come che sia, questo persecutore non è solo lo sterminio e la violenza pura e semplice, come sta accadendo in Iraq o in Siria, dove si è istituzionalizzata nel ben noto “califfato” dell’Isis. In molti altri Paesi la situazione dei cristiani è tale da potersi tranquillamente parlare di persecuzione, oltre che di discriminazione. Così è per esempio in Pakistan. Ma nemmeno l’India sfugge a questo fenomeno. Lo stato indiano chiude spesso un occhio o anche tutti e due su violenze e discriminazioni gravissime che hanno colpito e colpiscono la comunità cristiana di quel Paese. In Cina, il cristianesimo condivide con le altre fedi religiose la pesante ostilità del regime comunista. Ma anche nei paesi islamici cosiddetti “moderati”, la situazione è comunque in aperta contraddizione con la dichiarazione universale dei diritti dell’uomo, fra i quali rientra la libertà religiosa. In Arabia Saudita è proibito qualunque segno esteriore di culto cristiano, in Egitto la minoranza cristiana, la più consistente di tutto il mondo arabo, subisce angherie e soprusi e violenze anche gravi. E sempre in Africa, sono ben noti i casi della Nigeria ma anche di altri Paesi africani dove i cristiani vengono allegramente massacrati senza che le autorità statali siano in grado di proteggerli adeguatamente.
Un triste e solo parziale elenco, che ha fatto dire a San Giovanni Paolo II che “al termine del secondo millennio, la Chiesa è diventata nuovamente Chiesa di martiri” (Giovanni Paolo II, Tertio Millennio adveniente, 37).
Ma per atroce che sia questa rassegna, non ci si può fermare ad essa. Non pochi infatti sottolineano come l’esistenza di questo stato di cose – da nessuno messa seriamente in dubbio – ben poca emozione provochi nei paesi occidentali che una volta era lecito definire paesi cristiani. Anche questo argomento è assai dibattuto ed esaminato, non senza acute note polemiche, in campo cattolico ma non solo in esso.
Tralasciamo le accuse (a nostro avviso deliranti) che alcuni movimenti cattolici muovono al Papa accusato di indifferenza per il martirio di tanti fratelli (purtroppo è dato leggere anche questo) e veniamo invece all’accusa di indifferenza rivolta in genere all’occidente e all’Europa o all’Italia in particolare. Si è detto come questa accusa venga mossa non solo da fedeli cristiani: “Diciamo la verità: a quanti qui in Europa e in Occidente importerà davvero qualcosa dell’ennesima uccisione di cristiani, saltati in aria ieri, a Kano, in Nigeria, per lo scoppio di una bomba in una chiesa? E del resto a quanti glien’è importato davvero qualcosa dei cristiani obbligati ad abbandonare Mosul nel giro di 24 ore, pena la vita o la conversione forzata all’Islam? A nessuno. Così come nessuno ha mai alzato un dito per tutti i cristiani fuggiti a centinaia di migliaia in tutti questi anni dall’Iraq, dalla Siria, da tutto il mondo arabo. Quante risoluzioni i Paesi occidentali hanno presentato all’Onu riguardanti la loro sorte? Quanti milioni di dollari hanno chiesto alle agenzie delle Nazioni Unite di stanziare a loro favore? Sono ormai anni che la strage continua, quasi quotidiana: a decine e decine i cristiani vengono bruciati vivi o ammazzati nelle chiese dell’India, del Pakistan, dell’Egitto, della Nigeria. E sempre nel silenzio o comunque nell’inazione generali.” (Ernesto Galli Della Loggia, Corriere della Sera, 28 luglio 2014).
Questo è il condivisibile quadro delle reazioni politiche al fenomeno: tale quadro deve essere spiegato, interpretato, bisogna almeno provare ad individuare e comprendere le ragioni profonde che lo hanno determinato. Non basta constatare che la prima a non dare il giusto risalto al fenomeno è la stampa, pur con qualche eccezione: come se la stampa e in generale il mondo della comunicazione non fosse, come del resto quello della politica e delle istituzioni, espressione della società cui è sotteso.
Andrà quindi cercato nelle viscere delle nostre società opulente, e in particolare di quelle europee (l’America, per questo come per altri aspetti, e in generale sulla problematica religiosa, è molto diversa dall’Europa), la motivazione profonda di questa indifferenza.
Cerchiamo dunque di discernere il “discorso pubblico” non solo sulla persecuzione dei cristiani ma, più in profondità, sullo stesso cristianesimo come tale. Il processo di secolarizzazione in Europa come in Italia ha progressivamente contribuito alla eliminazione della valenza pubblica della religione in genere, e ovviamente, dato che si sta parlando di Europa, specificamente di quella cristiana; le Chiese – tutte – sono ormai largamente irrilevanti nella determinazione delle politiche pubbliche.
Ma il fatto relativamente nuovo, e purtroppo assai poco discusso e analizzato è che, soprattutto nel campo intellettuale, (che è uno dei “poteri di fatto” che determinano quello che abbiamo chiamato discorso pubblico) ad una sostanziale indifferenza verso la religione, considerata un fenomeno al tramonto buona per le anime semplici, si va sempre più sostituendo una aperta e dichiarata ostilità. Ostilità in particolare verso il cristianesimo: vuoi perché esso fa tutt’uno con la storia europea, vuoi perché l’altra religione europea, il giudaismo, è protetta dal tabù dell’Olocausto, e vuoi infine perché trattare con disprezzo e ostilità la fede islamica risulta alquanto pericoloso di questi tempi.
Ora: ciò che trasforma una bonaria indifferenza, magari condita da qualche condiscendenza, in ostilità aspra e dichiarata è il rifiuto della dimensione antropologica del cristianesimo, assai più che quella di fede propriamente detta. Il rifiuto della visione dell’uomo propria del cristianesimo nasce dall’affermarsi di una ideologia – sì: è proprio il caso di usare questo termine – che riconosce validità e serietà soltanto alla conoscenza scientifica, e nient’altro. Siamo visti, in altri termini, non più come ingenui bisognosi di consolazioni utopiche, ma come pericolosi nemici del progresso scientifico, e soprattutto nemici dell’onnipotenza tecnologica, in quanto facciamo riferimento ad una etica fondata su un dato immobile; sulla natura dell’essere umano considerata in sé, non un divenire manipolabile dalla tecnica: questo è il punto.
E come accade ad ogni ideologia, essa tende ad espandersi, ad uscire dal chiuso dei dibattiti delle elite culturali per diffondersi nella mentalità comune. E proprio questo è dato di rinvenire sempre più spesso nel “discorso pubblico”. L’aperta, dichiarata irrisione sono rivolti in primo luogo alla Chiesa – istituzione visibile e quindi facile bersaglio polemico – ma soprattutto alla sua “morale”, che è come dire la sua visione antropologica. “È, insieme, una contestazione sul terreno dei principi, un chiedere conto dal tono oltraggiato e perentorio.” (Galli Della Loggia, ibidem, 21 marzo 2010).
Un fenomeno che è in corso e anche in crescita: di cui non si deve ingigantire la serietà, ma che certamente andrebbe intanto riconosciuto e studiato. Non ingannino gli entusiasmi per Papa Francesco, riconducibili assai più ad un fenomeno di auto-alimentazione mediatica che non ad una ragionevole comprensione del suo Magistero. Del resto egli è tanto più lodato quanto più gli si accreditano passi tesi, appunto, a riformare “ab imis fundamentis” la morale cristiana, laddove a noi pare evidente che si tratta semmai di adeguare i modi della carità, che sono altra cosa.
Ora, il fenomeno che abbiamo cercato di tratteggiare costituisce un ottimo brodo di coltura per l’indifferenza verso le persecuzioni anticristiane, e non solo di quella: lo è pure per il progressivo affermarsi di leggi e consuetudini che anche da noi, ogni giorno di più, configurano certo non una persecuzione, ma la crescita di una ostilità di fondo, questa sì. Si pensi, per esempio, a quanto sta accadendo in un numero sempre maggiore di casi in Europa, sulla obiezione di coscienza all’aborto. Si pensi a quanto è normale nella Francia repubblicana, e cioè che è vietato per legge dire che un rapporto omosessuale è un peccato per la morale cattolica. Si pensi alle commissioni di studio che nel Regno Unito stanno cercando di trovare un nuovo nome al Natale perché esso in quella lingua contiene il nome di Cristo, e ciò sarebbe “discriminatorio”; e si potrebbe continuare.
Risulta allora comprensibile l’indifferenza nei confronti dell’aperta violenza subita dalle comunità cristiane non europee. Nessuno, s’intende, le approva; se interrogato ovviamente le deplora: ma esse non sollecitano alcuna emozione neanche lontanamente paragonabile, per esempio e senza la minima intenzione di entrare nel merito, con quella che tuttora suscita la notizia di qualunque azione militare israeliana contro i palestinesi. Si aggiunga che dietro le comunità perseguitate non c’è evidentemente nessun interesse economico, che possa indurre i media ad occuparsene con le buone o con le cattive, e il cerchio magico della indifferenza si chiude.
Due ultime considerazioni: la prima è che si vorrebbe sapere quanto le nostre comunità cattoliche siano sensibili al problema: di certo, fra le numerose preghiere dei fedeli elaborate dalle diverse comunità locali non sembra di rilevare un numero significativo di preghiere per i nostri fratelli nella fede perseguitati: e poiché una vulgata tenacemente diffusa è solita contrapporre una “base” cattolica tanto sensibile ad un vertice gerarchico freddo e diplomatico sarà il caso di osservare che in questo campo è vero esattamente il contrario: pur con le ben comprensibili prudenze del caso, le Gerarchie e la Santa Sede si sentono. È proprio la mitica “base” ad essere deficitaria.
La seconda: ci si è valsi non poco, nella confezione di questo contributo, degli scritti del professor Ernesto Galli Della Loggia, storico e pubblicista, che si dichiara non credente. Pure, a nostro giudizio la sua analisi del fenomeno è tra quelle più chiare e condivisibili, anche da una persona di fede. Tanto si vuole evidenziare, e non solo per un giusto riconoscimento. Con molta acutezza, infatti, lo stesso studioso individua alcune conseguenze implicite del fenomeno descritto.
“La libertà religiosa vuol dire alla fine null’altro che la libertà della coscienza, cioè il non essere obbligati per nessuna ragione ad abbracciare idee o comportamenti contrari ai dettami accettati nel proprio foro interiore. Che è appunto la libertà di autodeterminarsi: e pertanto anche di parlare, di scrivere, di discutere a sostegno delle proprie convinzioni, così come di ascoltare quelle altrui e magari farsene convincere. Insomma, libertà religiosa da un lato e dall’altro libertà di opinione e di parola – che sono i due pilastri della libertà politica – vanno all’unisono. È innanzi tutto da questo punto di vista, dunque, che è quanto mai preoccupante il fatto che oggi, in Europa, in molti luoghi e per molti versi, la libertà dei cristiani appaia oggettivamente messa in pericolo. E non importa che ciò avvenga per il proposito di proteggere da supposte discriminazioni questa o quella minoranza. È anzi semplicemente paradossale, dal momento che nell’attuale panorama del continente sono i cristiani in quanto tali che appaiono una minoranza. Lo sono di certo – e massimamente i cristiani cattolici e la loro Chiesa – rispetto al mainstream dell’opinione e del costume dominanti e culturalmente accreditati.” (Galli Della Loggia, ibidem, 2 giugno 2013).
Alberto Hermanin