Cosa significa celebrare un anniversario? Perché fare memoria di un evento accaduto nel passato? Che valore può avere ricordare una persona e la sua opera? Nel nostro caso, quale valore attribuire a ciò che si è messo in campo per ricordare i cento anni della nascita di Guglielmo Giaquinta? Nel suo caso, come per altre celebrazioni di anniversari, ci si può limitare soltanto a riti e liturgie, pur se solenni e impregnate di sentimenti, accompagnate da momenti carichi di emotività e di coinvolgimento di un gran numero di persone?
Va osservato, anzitutto, che ci si trova di fronte ad un anniversario da ricordare, più che di una data, di una scadenza di cui fare memoria. Va privilegiato, indubbiamente, il verbo ricordare per porre in evidenza tutta la forza del far passare ancora una volta dal cuore (ri-cordare) una persona, Guglielmo Giaquinta. Un testimone del sec. XX che ne ha solcato la storia e, in esso, ha largamente seminato il seme che il “padrone” del terreno gli ha dato da seminare con generosità su ogni tipo di terreno in cui è stato posto a seminare: la vocazione alla santità, costitutiva della vita cristiana e via per ogni uomo della piena realizzazione di sé. Giaquinta, dunque, va ricordato pienamente inserito nelle vicende della società e della Chiesa, sotto diversi aspetti non solo italiana. Celebrare l’anniversario della sua nascita è, pertanto, funzionale a riconsegnare l’uomo, il presbitero, il vescovo e armonizzare nel presente e per il futuro la sua opera con le vicende della società e della Chiesa.
Tale angolatura, per necessità di cose, fa debordare il lascito di questo centenario dai naturali steccati dell’affettività, della simpatia e dell’emotività, per aprirsi ad un respiro di più ampia portata, determinato essenzialmente da ragioni di recupero dei contenuti più pregnanti della lezione consegnata da Giaquinta con il suo magistero e con la sua vita. Quasi a raccogliere l’invito che viene dallo stesso motto episcopale di Giaquinta: Duc in altum. Non aver paura di prendere il largo, liberandosi dalla pretesa di saper essere buoni pescatori, per gettare la rete dal lato in cui indica il Maestro e sperimentare, ancora una volta, la possibilità di consegnargli una rete che rischia di spezzarsi per il gran numero di pesci.
Lo scorrere del tempo, anche in riferimento ai venti anni dalla sua morte (15 giugno 1994), meglio permette di cogliere l’intreccio che accompagna la sua storia, intrisa della coscienza chiara che Dio intendeva valorizzare la sua vicenda umana per scrivere un tratto della storia della salvezza per i suoi contemporanei e per le generazioni future. L’appellativo di padre con cui abitualmente era chiamato, così come ancora nel presente a lui si fa riferimento da quanti si fanno promotori del suo carisma, lo colloca sulla scia di quella paternità spirituale, espressione e prolungamento della paternità divina. Da Paolo di Tarso, ai Padri della Chiesa, e fino ai nostri giorni, è un tratto proprio dell’esperienza cristiana, della trasmissione del depositum fidei. E ciò non perché ci si arroga tale titolo o condizione: «e non chiamate nessuno “padre” sulla terra, perché uno solo è il Padre vostro, quello del cielo» (Mt 23, 9). Perché, piuttosto, la paternità viene riconosciuta dagli altri come rendimento di grazie a Dio Padre, che incarna e manifesta tale Sua prerogativa in modo immediato in quanti si arrendono totalmente al Suo amore, e da costoro viene mediata in modo che meglio possa sperimentarsi la Sua paternità.
E Giaquinta, nella Chiesa del Novecento, per la Chiesa e per tutti coloro che lo hanno incontrato, ha indubbiamente rivelato il volto della paternità di Dio. Ha saputo riconoscere, annunziare, ricordare e testimoniare la condizione essenziale, la prerogativa principale di Dio: la perfezione infinita di Padre, a tutti donata in forza del Battesimo e a cui tutti siamo chiamati. C’è una forma di paternità in Giaquinta che è dettata dal fatto che si è aperto senza alcuna riserva allo Spirito del Padre di Gesù Cristo, e dallo Spirito ha ricevuto un carisma peculiare, quello di generare alla riscoperta di una vocazione, della vocazione fontale (nel senso di ricevuta al fonte battesimale e di irrinunciabile per la vita cristiana), della vocazione universale alla santità.
La paternità spirituale è una paternità che per vie assolutamente misteriose, divine, genera un popolo che vive la sua storia dentro, e non fuori, la storia dell’umanità. Un popolo non composto da individui isolati, ma da persone tra loro in comunione. È un evento comunitario dove ognuno, secondo il proprio stato di vita, secondo la condizione di età, di luogo e di tempo, scopre una forza di comunione con tutti gli altri e insieme
1. Tratti della spiritualità di Giaquinta
Giaquinta sente la sua vita sconvolta dalla percezione degli anni della II guerra mondiale come un dramma personale, un conflitto tra luce e tenebre. Quale via intraprendere per risolvere il dramma della storia umana? Può il cristiano restare insensibile di fronte a ciò che accade? Quali indicazioni concrete dare ad uomini e donne per la loro quotidianità? Si interroga: santi si nasce, o si diventa? Matura in lui la scoperta e la proposta del «massimalismo evangelico», di una vita cristiana che vive nella tensione verso la massima fedeltà al vangelo, come via di massima realizzazione della persona e di massima felicità. Scopre Gesù Cristo come fonte, modello e via di santità, modello di perfezione e di piena realizzazione della persona umana.
Nel suo primo volume, Gesù nel dramma sociale (1951), tematizza il senso fondamentale del suo ministero: l’ascolto di Dio e dell’uomo. Ascolto di Dio, con chiaro riferimento a Cristo in croce, Ho sete; ascolto dell’uomo, delle sue emergenze interiori ed esistenziali: anche l’uomo grida ho sete. È come se Giaquinta si ponesse con un orecchio a Dio e un orecchio all’uomo. Il richiamo è anche al dialogo di Gesù con la donna samaritana al pozzo di Sichem, riportato dal vangelo di Giovani.
Accanto all’ascolto è costante lo studio e l’approfondimento, per dare risposte con contenuti cristiani e valide. La santità è stata da lui ricercata nelle Scritture, nella Tradizione, nella Liturgia, nei teologi antichi e moderni, nei testi di agiografia, nelle pieghe della storia umana. Le biografie dei santi, in particolare, permettono di conoscere una santità possibile a tutti, in ogni tempo, e in ogni luogo.
Giaquinta spiega così il fondamento del carisma: la nostra accettazione generosa della vocazione alla santità non possiamo considerarla «come un problema eminentemente pratico ed operativo», ma come consegna all’infinito amore di Dio, che «ci prende nella profondità e nella totalità del nostro essere, giacché l’amore di Dio deve impadronirsi di noi completamente, totalmente», così come Dio si è donato all’uomo completamente, totalmente.
Dalla sua intuizione sono sorte realtà diverse a servizio della vocazione universale alla santità: il Movimento Pro Sanctitate, le Oblate Apostoliche, i Sacerdoti Apostolici Sodales, i laici Animatori Sociali, l’Organizzazione Fraternità Sociale. Realtà che esprimono settori diversi della vita della Chiesa e delle condizioni umane perché la vocazione alla santità trovi risposta in tutti: «Chi deve sforzarsi di diventare santo? Tutti. Chi deve far diventare realtà vivente l’utopia dei santi? Tutti. Chi deve realizzare la rivoluzione dell’amore? Tutti» (L’amore è rivoluzione, p. 231).
Giaquinta fa parte di quella categoria di uomini che, alla luce di quanto accaduto, appartengono alla condizione di coloro che sanno leggere la propria storia come un’opera dello Spirito, che colgono nelle vicende umanamente strane di cui sono protagonisti che un Altro conduce la loro vita.
Egli si colloca nella storia della Chiesa del Novecento a diverso titolo: da prete romano disponibile ad accogliere un carisma e renderlo operativo (=fondatore); responsabile dell’ufficio affari riservati e segretario del Vicariato; vescovo di Tivoli. La sua formazione e la sua opera si inseriscono all’interno del contesto spirituale ed ecclesiale della prima parte del secolo XX, con particolare attenzione al tema della santità nella teologia e nella spiritualità, ma anche negli orizzonti a cui invita a guardare il Vaticano II.
La vita di presbitero e di vescovo di Guglielmo Giaquinta è una vita dedita all’annuncio della santità come chiamata universale, possibile e doverosa a tutti, impastata nella storia degli uomini; risposta a Dio delle singole persone, come delle famiglie, della Chiesa in ciascuna sua comunità, dell’umanità tutta.
Giaquinta sa cogliere il desiderio di Dio e il bisogno degli uomini. Si apre alla possibilità di una via sempre antica e sempre nuova, attraverso la quale e Dio e gli uomini si incontrano nella tensione massima del donarsi vicendevole: la santità Dio, pienezza di realizzazione per la persona umana.
La disponibilità all’ascolto e l’impegno nell’approfondimento Giaquinta li applica soprattutto in tre modalità: restare per molte ore al confessionale; impegnarsi con scrupolo e generosità nei delicati e importanti incarichi, mai cercati sempre affidatigli, nella Chiesa a favore della diocesi di Roma, specialmente dei sacerdoti; elaborare strumenti semplici ma dai contenuti esigenti per la vita spirituale.
2. La risposta nel quotidiano alla chiamata universale alla santità
Quando Giaquinta inizia a parlare di santità, di vocazione alla santità e poi anche di vocazione universale alla santità, nella Chiesa si intendeva altro rispetto a ciò a cui oggi noi facciamo riferimento. Era diffusa la convinzione che la santità fosse premio esclusivo di Dio ad alcune categorie speciali di cristiani (per esempio i religiosi e le religiose) e che la santità fosse il risultato di un percorso umano e di fede segnato da uno sforzo personale eroico di vita virtuosa, di preghiere, di mortificazioni, di penitenze, di sacrifici, di rinunzie.
Soprattutto negli anni subito dopo la seconda guerra mondiale iniziava a diffondersi l’esigenza di ripensare la santità, per considerarla possibile a ciascuna categoria di cristiani, in tutti gli stati di vita.
Il punto di partenza di Giaquinta non è né la filosofia, né la cultura, né la sociologia e neppure la filantropia. Il suo fondamento è la visione dell’uomo redento da Cristo. Dalla redenzione operata da Gesù egli avvia la riflessione che lo porta a mettere in luce la conseguenza dell’accettazione di questo amore redentivo: la santità, appunto, non come sforzo dell’uomo verso Dio ma come dono totale di Dio all’uomo, come conseguenza di Dio che si dona totalmente all’uomo. L’attenzione, così, è concentrata sull’opera di Dio che è amore e non sull’opera dell’uomo. Su Dio che non mortifica l’uomo ma lo valorizza, al punto da rendersi Lui stesso uomo. In special modo il sacramento del battesimo che, rendendo l’uomo realmente figlio di Dio, lo rende partecipe della santità di Dio. Tale partecipazione diviene, pertanto, la via della propria realizzazione umana e cristiana.
Nella ordinaria quotidianità e non in forme straordinarie, in luoghi particolari. Il cristiano vive il primato di Dio santo e così manifesta la santità di figlio di Dio e risponde nelle condizioni della propria vita, qualsiasi esse siano, al dono di Dio. La risposta al dono della santità non è fondata sulle emozioni e sul sentimento ma radicata nell’amore realizzato nella storia umana da Gesù Cristo e a noi consegnato attraverso la Parola di Dio, i Sacramenti, la liturgia e la comunione ecclesiale.
Giaquinta, così, contribuisce in modo determinante a far maturare nella Chiesa la presa di coscienza che la vita cristiana di ciascun battezzato è vocazione e che la sua prima e fondamentale vocazione è la santità. Anche il riferimento alla seconda nota della Chiesa, che affermiamo nella professione di fede, Credo la Chiesa una, santa, assume così un nuovo significato: il riferimento è alla santità del suo fondatore e Signore Gesù Cristo, donata a tutti i membri della Chiesa. E, dunque, credo pure che anche io sono santo e sono chiamato a realizzare pienamente questa mia condizione, a volerla con decisione, in tutta la mia vita qualsiasi sia il luogo, il tempo e la modalità in cui la vivo.
Si comprende, allora, perché Giaquinta denomina Pro Sanctitate – cioè, per la santità, a favore della santità, per la promozione della santità – il movimento, l’organizzazione a cui dà vita. Di essa afferma che la sua spiritualità è «essenzialmente teologica, cristologica e, solo conseguentemente, antropologica, [e] può sintetizzarsi in questi punti fondamentali:
- Dio è amore.
- Egli ci ha amato infinitamente e per questo ha inviato tra noi il suo Figlio unigenito.
- Dio ha quasi mostrato di avere bisogno del nostro amore.
- Gesù ci ha insegnato ad amare il Padre, esortandoci a corrispondere al suo amore per noi con l’imitazione della sua perfezione.
- La morte in croce di Gesù è l’espressione massima di tale amore del Padre e del Verbo e non può non costringerci ad uno sforzo massimo per corrispondere all’amore e cioè a tendere verso la santità.
- Tale dovere di amare Dio riguarda tutti gli uomini, e ciascuno di noi deve sentire l’impegno di farlo conoscere a tutti i fratelli.
È nata da questi semplici e chiari principi l’Organizzazione “Pro Sanctitate” che tutti desidera raccogliere in unità perché, divenuti coscienti di questa grande legge dell’amore e della santità, diffondano nel mondo intero, con ogni mezzo possibile, la “buona novella” che Dio ci ha amato e che attende la risposta del nostro amore.
A chi spetta il compito di attuare questo programma di amore e di santità? A tutti, nel tempo e nel luogo in cui ciascuno vive la propria vita, nello status proprio di sposato/sposata, di sacerdote, di consacrato/consacrata, di giovane e di anziano. È per questo che essi costituiscono la parte centrale e quasi il cuore della Organizzazione “Pro Sanctitate”».
Che significa ciò che Giaquinta afferma a proposito del Concilio Vaticano II? Se prestiamo attenzione alla struttura del documento sulla Chiesa, Lumen Gentium, ci rendiamo conto che in effetti il tema della vocazione universale alla santità sta proprio al centro di tale documento, come ad indicare l’identità essenziale della Chiesa. Il documento è così articolato: I. Il mistero della Chiesa; II. Il popolo di Dio; III. Costituzione gerarchica della Chiesa e in particolare dell’episcopato. IV. I laici; V. Universale vocazione
alla santità nella Chiesa; VI. I religiosi; VII. Indole escatologica della Chiesa peregrinante e sua unione con la Chiesa celeste; VIII. La beata Maria vergine e madre di Dio nel mistero di Cristo e della Chiesa.
La vocazione alla santità dice del mistero della Chiesa, tutti i membri della Chiesa sono chiamati a viverla, in particolare i membri degli istituti di vita consacrata per la speciale adesione a Cristo; sia i cristiani pellegrini nella storia che quelli che vivono già gloria di Dio costituiscono un’unica Chiesa e sono tutti accomunati dalla stessa santità; nella beata vergine Maria la Chiesa contempla il suo modello perfetto e definitivo della risposta alla vocazione alla santità. In questa prospettiva è evidente che trova un preciso fondamento anche la devozione alla Madonna: libera da devozionismi, fondata sulla duplice inscindibile dimensione cristologica ed ecclesiologica, impregnata di anelito ad imitare di Lei la totalità della risposta al progetto di Dio nella sua vita. Riferimento così fondato alla beata vergine Maria, «modello di ogni santità», che in Giaquinta si è espressa con la devozione alla Madonna della Fiducia: «donaci tu la fiducia di diventare santi». È l’invocazione che ha consegnato ai membri delle realtà a cui il suo carisma ha dato vita.
Nel capitolo V della Lumen Gentium dedicato alla vocazione alla santità leggiamo in particolare al n. 40: «Il Signore Gesù, maestro e modello divino di ogni perfezione, a tutti e a ciascuno dei suoi discepoli di qualsiasi condizione ha predicato quella santità di vita, di cui egli stesso è autore e perfezionatore: “Siate dunque perfetti come è perfetto il vostro Padre celeste” (Mt 5, 48). […] È dunque evidente per tutti, che tutti coloro che credono nel Cristo di qualsiasi stato o rango, sono chiamati alla pienezza della vita cristiana e alla perfezione della carità e che tale santità promuove nella stessa società terrena un tenore di vita più umano».
Una santità, dunque, da vivere nella storia e non fuggendo da essa. Il cristiano che risponde alla vocazione alla santità si sente responsabile delle vicende umane ed è capace di promuovere il bene comune. Se teniamo conto dello schema della Lumen Gentium sopra ricordato, possiamo dire che la risposta alla vocazione alla santità si realizza appieno nell’incarnazione.
Ma non è forse questo il metodo cristiano, il metodo insegnatoci da Gesù? Si è incarnato nella storia, è venuto per salvare non per giudicare e condannare, e per questo motivo abbiamo conosciuto e ricevuto il dono della santità. È vivendo immerso nella storia dell’umanità, che è anche la sua storia, che il cristiano può dare una risposta concreta alla vocazione alla santità: ci si santifica dentro la storia e non fuori di essa. Così, la vocazione alla santità chiama il cristiano ad una precisa responsabilità sociale.
Il concilio, inoltre, ci indica le vie e i mezzi di santità, al n. 42: «Dio ha diffuso il suo amore nei nostri cuori per mezzo dello Spirito Santo, che ci fu dato (cfr. Rm 5, 5); perciò il dono primo e più necessario è la carità, con la quale amiamo Dio sopra ogni cosa e il prossimo per amore di lui. Ma perché la carità, come buon seme, cresca e nidifichi, ogni fedele deve ascoltare volentieri la parola di Dio e con l’aiuto della sua grazia compiere con le opere la sua volontà, partecipare frequentemente ai sacramenti, soprattutto all’eucaristia, e alle azioni liturgiche; applicarsi costantemente alla preghiera, all’abnegazione di se stesso, all’attivo servizio dei fratelli e all’esercizio di tutte le virtù» (i corsivi sono miei, per meglio evidenziare quali sono le vie e i mezzi).
Nel volume La santità (pp. 42-53) Giaquinta indica quali possono essere le condizioni per rendere possibile oggi la risposta alla vocazione alla santità, per viverla nel tempo e luogo in cui si vive e per comprendere i risvolti sociali di essa.
«Quale dunque il santo di oggi? In primo luogo un uomo aperto, che abbia la capacità di cogliere il pullulare di bene, di ansie, di attese, di speranze, che sappia cogliere nei movimenti che attorno nascono, fioriscono e forse muoiono, la voce implorante dello Spirito, una creatura, cioè, aperta a tutte le suggestioni dello Spirito. Non è possibile rinchiudersi nei vari schematismi, ma è necessario avere l’ampiezza del cuore di Cristo e di Paolo nella piena fedeltà alla Chiesa, ma con l’ampiezza della Chiesa stessa. Il santo moderno, quindi, deve avere un senso di ampiezza e di percezione dei valori positivi anche tra le realtà negative con il senso di ottimismo che nasce appunto dalla certezza che è lo Spirito che agisce, non dimenticando che anche la maturazione del mondo verso alcuni ideali, cui si è già accennato prima, è opera dello Spirito: è lo Spirito che agisce nel mondo, senza che questo ne abbia la percezione, spingendolo verso Cristo. Di qui la necessità di saper valorizzare gli aspetti positivi di un mondo che resiste allo Spirito.
Secondo elemento è quello della gioia. Ormai il mondo è irretito di tristezza, di paura, di terrore, va cercando sguardi che siano pieni di serenità e di gioia: la felicità è la ricerca profonda del cuore umano. Se realmente crediamo in Cristo, se abbiamo trovato la nostra felicità in Lui dobbiamo emanare, ispirare gioia. [...]
Altro aspetto è il dinamismo. Siamo in un tempo di dinamismo e di attività, il mondo attorno a noi si muove. I figli delle tenebre – così possiamo chiamarli con termine evangelico – sono scaltri, più capaci, più dinamici dei figli della luce. […] È il momento di agire, non nel senso della fattualità puramente materiale,
ma del dover portare Cristo, e ripetere con S. Paolo la esigenza di evangelizzazione e di sentire la spinta interiore: “guai a me se non avrò evangelizzato, perché l’amore di Cristo mi spinge e mi brucia dentro”. (cfr. I Cor 9, 16).
Oggi c’è bisogno di leaders, di animatori, di persone che sappiano prendere in mano le redini, le situazioni. Molto spesso ci sono tante attese e tante speranze che non si concretizzano perché manca qualcuno che abbia il coraggio di assumersi la responsabilità, di pagare in proprio e andare avanti. Occorrono dei rivoluzionari dell’amore, persone capaci di creare attorno a sé un movimento rivoluzionario dell’amore, così come gli altri sanno fare nell’odio e nella violenza.
Tutto questo esige, come già si diceva, la perdita del proprio spazio e del proprio tempo per donarsi. È indispensabile uscire dal proprio guscio per darsi agli altri, uscire dal proprio egoismo, dalla propria autosufficienza, dalla commiserazione di se stessi, dalle personali problematiche, dagli eventuali complessi che a volte attanagliano, perché gli altri hanno bisogno di noi, della nostra donazione, di quel Dio di cui abbiamo la presenza e il possesso datoci dall’esperienza. Ma è solo nell’amore verso il Signore, Dio nostro Padre, verso Cristo e lo Spirito, e nell’amore autentico ai fratelli, che è possibile trovare la forza di darsi a un simile ideale uscendo da se stessi e quindi trovare la motivazione della propria santità».
E a proposito della dimensione sociale della santità, di una santità – come si diceva sopra – pienamente incarnata nella storia dell’umanità, come in fondo sono stati un po’ tutti coloro che la Chiesa segnala come modelli esemplari di vita cristiana, di santità appunto, Giaquinta afferma che il santo è un uomo sociale, che condivide le gioie e le speranze, le difficoltà e i problemi di quanti incontra, di chi gli è vicino e dell’umanità intera. Santità personale e santità sociale sono forme dell’unica dimensione di santità, e non si possono separare. Scrive sempre nel volume La santità (pp. 104-112): «Prima condizione essenziale alla santità oggi è dunque quella di sintonizzarsi con il momento storico. Viene da chiedersi come fare a non essere fuori del tempo, ad essere parola attuale.
La prima condizione è quella della conoscenza del proprio tempo in tutte le sue componenti. In ogni caso quindi occorre conoscere la realtà nella quale viviamo. Ma non è sufficiente conoscere il mondo, bisogna amarlo perché esso di fatto non è né stelle, né sole, né luna, né alberi: il mondo è composto da nostri fratelli per i quali Cristo Gesù è morto sulla croce, ai quali il Signore ci ha mandato e ci manda come suoi apostoli e verso cui dobbiamo sentire amore.
[…] Occorre avere la capacità di una visione oggettiva, di avere cioè il coraggio e l’apertura di saper cogliere gli aspetti positivi, ma anche il coraggio di saper denunciare ciò che vi può essere di sbagliato. È quanto, per esempio, deve essere fatto nei confronti dei fenomeni sociali dei nostri giorni che, indubbiamente, presentano aspetti macroscopici sbagliati, ma contemporaneamente rivelano, al fondo, la ricerca di qualche cosa che si sente mancare; ed è questa insoddisfazione l’elemento positivo in cui poter e dover inserirsi. […]
Un’altra caratteristica dei santi è la loro contemporaneità. I santi, si diceva, sono una risposta e una parola dello Spirito. I santi realizzano la contemporaneità della preghiera: occorre abituarsi a cogliere le esigenze del tempo per pregare per esse, per impetrare per i problemi di oggi, per agire nella preghiera e in forza della preghiera; occorre essere santi dell’oggi, santi che sentano la responsabilità del peso che il Signore ha posto sulle loro spalle, peso che va amato e per cui si deve pregare».
La dimensione personale e la dimensione sociale della santità si integrano pienamente con la dimensione ecclesiale. La Chiesa, nel senso in questo caso della Chiesa locale, della comunità ecclesiale di appartenenza e di esperienza della vita di fede cristiana, è il luogo dove il dono della santità mi viene consegnato ma anche dove sono chiamato a trasmetterlo. Si comprende, allora, quanto sia indispensabile recuperare e dare spazio alla vocazione alla santità nell’evangelizzazione, nella catechesi, nell’attività pastorale ordinaria, nella formazione cristiana dei ragazzi e dei giovani.
Ciascun battezzato, rispondendo alla chiamata alla santità, manifesta la santità della propria comunità ecclesiale, contribuisce a far splendere in essa il volto santo di Dio, e si impegna responsabilmente a collaborare per rendere credibile la vocazione alla santità come forma alta della vita cristiana, come vita umana pienamente riuscita, in grado di rispondere al precetto di Gesù «siate perfetti come è perfetto il Padre vostro celeste» (Mt 5, 48), e di realizzare quanto ci ha insegnato il Concilio Vaticano II: «chiunque segue Cristo, l’uomo perfetto, diventa anch’egli più uomo» (Gaudium et Spes, 41).
L’anniversario della nascita di Guglielmo Giaquinta volge già al termine. Cosa resta di commemorazioni, di celebrazioni, di manifestazioni? Sia a livello centrale che a livello periferico, la famiglia nata dalla sua apertura al peculiare dono dello Spirito (carisma), nelle diverse articolazioni, ha saputo far passare dal cuore di ciascun appartenente, e dai rispettivi amici, tutta la gratitudine per gli anni della vita di Giaquinta. Al momento della sua nascita il contesto storico era pesantemente condizionato da condizioni che hanno trovato il loro esito, infausto e drammatico, nella prima guerra mondiale.
La nascita della famiglia Pro Sanctitate è, in certo modo, condizionata dalle macerie materiali e spirituali della seconda guerra mondiale. Due eventi che hanno segnato la storia dell’umanità del secolo in cui Giaquinta si è mosso da protagonista, non per scelta personale bensì per la sua fede, che ha sostenuto la speranza e la realizzazione di una particolare forma di carità: il richiamo alla vocazione universale alla santità. Questo tempo, e i diversi luoghi in cui viviamo, sono quelli che la Provvidenza Divina ha assegnato a ciascuno di noi per vivere intensamente la propria avventura umana, grati per il dono della fede, animati dalla forza dello spirito di carità, sostenuti dalla speranza che la nostra storia, come tutta la storia dell’umanità è in cammino verso il Signore che viene. Sempre presente va tenuta la grande lezione di san Giovanni XXIII consegnataci nel discorso di apertura del Concilio Vaticano II, Gaudet Mater Ecclesia. Rispetto a persone che «pur ardenti di zelo, ma non fornite di senso sovrabbondante di discrezione e di misura», considerano il presente in costante regressione rispetto al passato, e non riescono a vedervi altro che «prevaricazione e rovina», la saggezza dell’uomo di fede fa «dissentire da cotesti profeti di sventura, che annunziano eventi sempre infausti, quasi che incombesse la fine del mondo. Nel presente momento storico, la Provvidenza ci sta conducendo ad un nuovo ordine di rapporti umani, che, per opera degli uomini e per lo più al di là della loro stessa aspettativa, si volgono verso il compimento di disegni superiori e inattesi; e tutto, anche le umane avversità, dispone per il maggior bene della Chiesa».
Per la famiglia Pro Sanctitate, pertanto, il centenario della nascita di Giaquinta ha tutto il sapore di una consegna nella storia degli uomini, perché diventi sempre più storia di Dio, grazie al «coraggio a portare avanti con gioia l’apostolato della santità». Che è il mandato affidato da papa Francesco, nel saluto al Movimento Pro Sanctitate, a conclusione dell’Angelus di domenica 15 giugno 2014. Giaquinta era nato il 15 giugno 1914. Quel mandato racchiude tutta la portata di un centenario che, se cronologicamente si chiude, ecclesialmente proietta in avanti.
Gaetano Zito - Preside dello Studio Teologico S. Paolo e Vicario Episcopale per la Cultura – Catania