Narrare Dio… a Parole Sue

APPROFONDIMENTI - P. Vincenzo Sirignano

Come cristiano, se dovessi narrare Dio a coloro che incontro o semplicemente a me stesso, non troverei alcuna alternativa all’unica verità che Egli è Amore. “Dio è amore”: è quanto riportato in 1Gv 4, 16; è la novità del messaggio cristiano su Dio ed è una concreta proposta di vita nuova per l’uomo. Da essa conseguono numerose altre affermazioni riguardanti la vita e il mistero di Dio e della sua relazione con l’uomo, proprio perché Egli è amore, è Padre e Madre, è Pastore, è Redentore, è Difensore, è Guida per l’uomo, sua diletta creatura.

Accogliere e contemplare Dio-Amore vuol dire santificarsi. Ci viene offerta infatti la possibilità di entrare nella vita intima di Dio, il quale, andando incontro all’uomo, fa sì che l’uomo stesso partecipi del suo amore che trasforma e rigenera, cosicché non vi è più nulla della vita di colui che è amato (l’uomo) che resti estraneo alla vita di colui che ama (Dio). Per l’uomo, a cui Dio si rivolge, diventa una vera rivoluzione di vita, un annuncio che sconvolge l’esistenza orientandola verso orizzonti infiniti. La consapevolezza che c’è Qualcuno che ci ama diventa qualcosa di sconvolgente: il suo amarci infatti non è un semplice movimento d’affetti ma è condividere, fare suo tutto ciò che riguarda la nostra esistenza, il nostro quotidiano, la nostra gioia come il nostro dolore, prendersi cura di noi in tutto ciò che ci è necessario per realizzare la libertà dei figli di Dio. Nella sua grande sete di essere amato e compreso, ogni uomo accoglie in Gesù Cristo Colui che veramente può comprendere e condividere, donando significato all’esistenza umana, facendola percepire come accolta, visitata e amata.

Riferendoci alla Parola di Dio, presentiamo ora alcune riflessioni tratte sia dall’antico che dal nuovo Testamento che chiariscono l’affermazione “Dio è Amore”.

La creazione dell’uomo (Gn 1, 27-31; 2, 8-24)

Tutto il racconto della creazione mette in rilievo che Dio non è chiuso in se stesso, ma esce da sé, creando dal nulla e rendendo la sua creazione bella e buona: da Dio, quindi, viene il buono.

Il racconto della creazione dell’uomo ci fa notare che l’amore di Dio non termina col fatto di averlo creato e reso un essere vivente; anzi il narratore del testo mostra che l’azione di Dio nei riguardi della sua creatura è continua: Egli è pieno di benevolenza, circonda l’uomo di cure e di premure; gli pianta il giardino di delizie attraverso il quale Dio si occupa della sua creatura con cura amorevole come una madre verso il proprio figlio; non gli dà da mangiare cose qualsiasi, ma cose buone e belle; anche il comando di non mangiare dell’albero della conoscenza del bene e del male va compreso in questa serie di benefici. Notiamo subito che quest’aspetto paterno/materno di Dio che si occupa e preoccupa di ognuno di noi è ripreso anche da Gesù nel Vangelo: “Guardate gli uccelli del cielo … eppure il Padre vostro celeste li nutre. Non contate voi forse più di loro? … Il Padre vostro celeste sa che ne avete bisogno” (Mt 6, 26-32).

E tutto ciò non basta, perché Dio si interroga per cercare altre cure con cui servire l’uomo, sua diletta creatura. Egli nota infatti che non è un bene la solitudine dell’uomo, pertanto lo inserisce in un contesto di relazione creandogli un aiuto che gli sia simile. Lo circonda di altri esseri viventi, quali gli animali, lasciando che sia l’uomo stesso ad imporre loro un nome, ma il dono più grande è la creazione della donna. Conducendo all’uomo la donna, i due creano comunione e reciprocità; nonostante la loro diversità essi diventano un segno visibile dell’Amore di Dio e della sua bontà. Il rapporto che si stabilisce fra loro due produce creazione, armonia e completezza; essi, l’uomo e la donna, sono l’immagine di Dio.

Dio condivide la sofferenza dell’uomo

L’infinita grandezza di Dio-amore ci è narrata dall’esperienza di Giobbe, la storia di un uomo piegato ma non vinto dalla sofferenza.

Quanti conoscono la vicenda di Giobbe sanno già che l’esperienza vissuta da quest’uomo è piuttosto dolorosa. Egli è l’uomo più ricco e potente fra tutti i gli uomini d’Oriente, ha bestiame in quantità, ha servitù, ha sette figli e tre figlie, gode di una grande stima da parte di Dio e degli uomini (Gb 1, 1-5). Un giorno viene messo alla prova perdendo tutto: ricchezze, figli e figlie e anche la salute, poiché viene colpito da una piaga maligna che lo rende inguardabile agli occhi degli altri. In tutto questo Giobbe si distingue per la sua integrità e per la fede incrollabile nel Signore, infatti non attribuisce nulla di ingiusto a Dio, il quale ha il diritto di riprendersi in qualsiasi momento ciò che ha donato (Gb 1, 6-22; 2, 1-10).

Verranno gli amici di Giobbe a condolersi con l’amico sofferente e da qui si accende un grande dibattito fra di loro (Gb capp. 4-37): da un lato gli amici che pongono all’origine delle sue disgrazie un qualche peccato di Giobbe, dall’altra parte Giobbe che con tutto se stesso difende la sua innocenza. Il dibattito, che diventerà forte e in certi momenti irrispettoso ed eccessivamente accusatorio, servirà a far crollare le false immagini che tante volte il credente può farsi di Dio, ossia di un Dio che ripaga secondo la condotta e le azioni dell’uomo, quindi un Dio, che a differenza del Dio premuroso della creazione, si relaziona con l’uomo in un freddo rapporto do ut des, cosicché se l’uomo è buono Dio lo benedice con ogni sorta di benedizione, altrimenti lo ripaga secondo le sue azioni. Tutto il dibattito sulla vicenda di Giobbe ci conduce a ritrovare il vero volto di Dio, quello paterno che condivide fin in fondo anche il dolore dei figli. Infatti la storia di Giobbe ha un lieto fine, non soltanto perché Dio gli restituisce ogni cosa in misura raddoppiata (Gb 42, 10-17), ma soprattutto perché l’esperienza acuta del dolore e della incomprensione sarà condivisa da Dio a tal punto che Giobbe esclamerà: “Io ti conoscevo solo per sentito dire: ora i miei occhi t’hanno veduto” (Gb 42, 5). Una vera e profonda professione di fede. Ma che cosa hanno veduto gli occhi di Giobbe? La sua storia mette in rilievo che l’uomo, soprattutto quello privo di speranza in un orizzonte di luce a causa di esperienze di sofferenza e di crisi acuta, può ancora avere un motivo per cui vivere e sperare e quindi poter narrare Dio nella sua vita, questo perché Dio stesso, anche se tante volte resta nel silenzio, decide di condividere con colui che soffre anche dolori indicibili, rivelandosi come amico o ancor più come il Padre che scende nella nostra realtà.

Ora, affinché ognuno possa sperimentare questo rapporto d’amore con Dio, è necessario che egli non intrattenga con Lui un freddo rapporto di dare e avere, piuttosto che entri in una relazione amorosa da cui riceverà ogni grazia salvifica. All’interrogativo fondamentale dell’esistenza, Giobbe ha ottenuto risposta: l’uomo che soffre, spesso buttato in uno stato di vita senza orizzonte in cui tante volte anche Dio sembra scomparire, può sperimentare ancora la paternità di Dio. Al termine della sua vicenda risulta chiaro a Giobbe che proprio Dio è il suo mediatore (Gb 9, 33-35), l’avvocato difensore (Gb 16, 19-21) o ancora il suo redentore in cui aveva sperato (Gb 19, 25-27).

La vicenda di Giobbe ci insegna che è necessario intrattenere con Dio un rapporto di relazione, dove i soggetti entrano in dialogo fra di loro e ognuno, mantenendo la propria diversità, va verso l’altro animato da un unico sentimento: l’amore. Questo è importante in quanto l’alterità, di cui ognuno è portatore, diviene un dono e non altrimenti una realtà insopportabile. Da questo punto di vista l’amore è un cammino ed è espressione di alleanza fra diversi; nell’alleanza si stabilisce una dinamica che è quella di promuovere l’altro. Da tutto ciò emerge che non si può narrare Dio partendo da un rapporto di mero e asfittico legalismo, ma che tale rapporto deve necessariamente essere amoroso, dove l’amore esprime la dimensione della generosità, della gratuita benevolenza e dell’affettività interiore. Con questo tipo di lettura, probabilmente, l’intenzione dell’autore del libro di Giobbe è stata quella di promuovere nel popolo eletto la coscienza che Dio è legato all’uomo con un’alleanza dialogica e non giuridica. Tale atteggiamento, da un lato invita il credente a non perdere il suo dialogo con Dio, onde evitare che ci si fermi a un rapporto freddo e standardizzato, dall’altro fornisce, attraverso l’esperienza di Giobbe, il modello di una ricerca continua dell’amore divino. Alla domanda di Giobbe: dov’è Dio quando soffro, la risposta è: Dio è seduto con l’uomo su cenere e polvere per condividerne gioie e dolori.

Quanto appena riportato sono solo due esempi, ma nella Parola di Dio ci sono tante altre storie ed esperienze che mettono in rilievo come Dio intesse una relazione con l’uomo, una relazione d’amore: si pensi all’esperienza della liberazione del popolo dalla schiavitù egiziana (Es 3), l’alleanza al monte Sinai (Es 19), l’elezione (Deut 7, 7-11), il dono dei Giudici e della monarchia, e poi le storie di Tobia e Giona, di Ester e Giuditta: tutte storie che mettono in evidenza come il Signore ami il popolo prendendosene cura.

Gesù ci fa conoscere il volto del Padre

L’amore e la paternità di Dio diventano ancora più chiari nel Vangelo. Prima di ogni cosa Gesù nel suo ministero va incontro e privilegia soprattutto quelli che per vari motivi sono di bassa condizione sociale: emarginati, persone giudicate come peccatori e quindi colpevolizzati dalla classe elitaria e religiosa. Per tanti peccatori o diseredati non c’era speranza, invece Gesù annuncia una nuova certezza: Dio li ama.

Così Gesù ci fa conoscere il Padre come il Dio degli emarginati, dei bisognosi e dei poveri. Un Dio con questo tipo di identità non poteva non sconvolgere una maniera piuttosto consueta di contemplare Dio, e quindi suscitare obiezioni da parte soprattutto di quell’uomo che risolve il suo rapporto con Dio con una pratica esterna e fredda dell’osservanza della legge. Gesù, per scuotere l’uomo da queste forme cristallizzate affinché trovi un rapporto dialogico con il Padre, racconta le parabole, genere che predilige, per far emergere l’originalità di questo Dio che si è avvicinato in modo nuovo e definitivo agli uomini. Nella parabola del Padre misericordioso (Lc 15, 11-31) presenta il comportamento di Jhwh fatto di atteggiamenti concretamente paterni e generosi che ancora una volta senza ombra di dubbio rivelano che Dio è il padre premuroso e misericordioso verso ogni uomo. Nel racconto il padre accoglie il figlio che era scappato; gli corre incontro, lo abbraccia, lo ristabilisce nella dignità di figlio, fa festa.

Anche nella parabola degli operai della vigna Gesù lascia intendere che Dio è buono e generoso. Egli infrange tutte le logiche della giustizia umana, infatti la parabola racconta che al termine di una giornata di lavoro nella sua vigna egli dà la stessa paga a tutti gli operai, sia a quelli che hanno lavorato fin dalla prima ora che a quelli che hanno lavorato un’ora soltanto. Ovviamente quest’atteggiamento suscita la reazione degli operai della prima ora che si vedono negato il riconoscimento di aver lavorato tutta la giornata. Ma Dio, nel suo agire sovrano, dichiara di essere buono e di voler dare tutto gratuitamente (Mt 20, 1-15). La ricompensa diventa così non il dovuto a prestazioni meritevoli, ma il dono dell’amore divino. Dio vuole stabilire con l’uomo un rapporto che superi l’utile perché la relazione del do ut des, come già sottolineato nel libro di Giobbe, non trova accoglienza nel cuore di Dio. Ovviamente l’amore di Dio annunciato da Gesù non è riferito solo in parabole, ma Gesù stesso concretizza quest’amore divino con il suo agire, guarendo i malati, cacciando i demoni (Mc 1, 21-45), mangiando con i peccatori (Lc 19, 1-10). Nel Vangelo l’uomo scopre un Dio che ha deciso di andare alla ricerca di ogni essere umano e che ha una predilezione per i poveri, i bambini, le donne, i malati, i peccatori, gli emarginati. Tutte queste categorie di persone possono sperimentare il perdono proprio a partire dalla loro condizione, possono incontrare l’amore personale del Padre, capire che la loro situazione non è disperata, che il loro peccato non significa irrimediabilmente condanna. A contatto con il Dio di Gesù tutti possono rinascere, trovare la capacità di accettare se stessi e gli altri vivendo quella libertà che immerge nell’amore e nella comunione.

Nella parabola del servo spietato (Mt 18, 25-35), ci viene proposta una vita fondata su misericordia, gratuità e bontà. Il Re, che ha condonato al servo un grande debito, non si aspetta che questi vada al Tempio dalla mattina alla sera, ma che faccia altrettanto con il suo prossimo. Dunque l’incontro con Dio Amore non vuole concretizzarsi solo in una pratica della Legge o in una assidua frequentazione del Tempio, ma a ciò occorre aggiungere la dimensione sociale e comunitaria, intessendo rapporti con tutti gli uomini al di sopra di ogni discriminazione o nazionalismo, in modo da realizzare la richiesta più originale di Gesù: l’amore del nemico (Mt 5, 43-47). Questa dimensione dell’amare il nemico scaturisce unicamente dall’incontro col Dio che perdona: chi ha fatto una tale esperienza non ha più scuse per non amare, e non solo il nemico personale ma anche quello nazionale o quello della propria religione.

È nell’incontro personale con Dio che l’uomo riceve la capacità di aprirsi agli altri, tende e crea la fratellanza, quella fondata sulla paternità escatologica e vissuta nell’amore reciproco.

Conclusioni

È certamente bello poter vivere nel quotidiano quanto finora presentato, ma tutto ciò richiede di superare non poche difficoltà legate in primo luogo alla debolezza della natura umana. Ecco perché Dio ha voluto condividere la nostra esistenza, abbassandosi fino a noi, offrendoci un rapporto di reciprocità attraverso il quale ricrea il nostro essere, ci eleva, e ci rende partecipi della sua vita divina. Ecco perché Dio è amore, ci fa conoscere la sua vita intima e attraverso Gesù Cristo, il Verbo incarnato, ci dona la possibilità di poterla condividere, condividere quindi la vita e l’amore trinitario che giungono a noi per mezzo del Vangelo e in particolare per mezzo della passione, morte e risurrezione di Gesù. In questo evento salvifico si realizza la presenza viva ed eterna dell’amore di Dio per ognuno di noi e per la creazione intera. Dio ci rivela la sua natura, ci fa conoscere il suo essere, amare per Lui non è una scelta, come per l’uomo, bensì è il suo stesso essere, la sua stessa vita.

Ovviamente, come ci insegnano i Padri e i Dottori della Chiesa, di Dio non possiamo dire niente, e quanto abbiamo affermato di Lui è solo un balbettio, poiché Dio è molto più grande di ciò che a noi è stato fatto conoscere. Eppure se ciò che già conosciamo è così grande e toccante, come sarà quando lo contempleremo faccia a faccia?

In questo rapporto di reciprocità Dio ci chiede di diventare amore e a noi, nonostante sperimentiamo la debolezza della nostra natura umana, viene offerta la grande possibilità di elevarci alla dignità di Dio per mezzo dell’amore. Infatti l’amore insegnatoci nel Vangelo rende l’uomo capace di vivere, secondo quanto è possibile, la vita stessa di Dio. Dio ama l’uomo, Dio investe sulla sua creatura, quella che porta la sua l’immagine impressa. Di fronte a tutto questo, come non restarne stupiti! Un Dio che per Amore si fa una sola cosa con la creatura umana, che per grandezza e dignità non è pari nemmeno a un granello di sabbia rispetto al suo Creatore!

Al credente, quindi, rimane un compito sempre attuale: quello di rinnovarsi giorno dopo giorno nell’amore, così da colmare la distanza che sempre separa la propria capacità d’amare dall’amore che è Dio, al fine di adempiere il comandamento di Gesù: “siate perfetti come è perfetto il Padre vostro che sta nei cieli” (Mt 5, 48).

P. Vincenzo Sirignano - Sacerdote della Congregazione dei Padri
Stimmatini della diocesi di Salerno

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