Ringrazio Gesù Cristo Dio che vi ha resi così saggi. Ho visto infatti che… voi credete fermamente nel Signore nostro Gesù, credete che egli discende veramente “dalla stirpe di Davide secondo la carne” ed è figlio di Dio secondo la volontà e la potenza di Dio; che nacque veramente da una vergine, che fu battezzato da Giovanni per adempiere ogni giustizia; che fu veramente inchiodato in croce per noi sotto Ponzio Pilato e il tetrarca Erode… Avete ferma fede inoltre che con la sua risurrezione ha innalzato nei secoli il suo vessillo per riunire i suoi santi e i suoi fedeli, sia Giudei che Gentili, nell’unico corpo della sua Chiesa”.
Così S. Ignazio di Antiochia, secondo successore di Pietro nella cattedra vescovile di quella città, allora importante metropoli dell’impero romano, scrive ai fedeli della Chiesa di Smirne.
Ignazio scrive questa e tutte le altre sei lettere per cui lo conosciamo, in viaggio da Antiochia verso Roma nei primi anni del secondo secolo. Si tratta di un viaggio particolare: è infatti condotto in stato di arresto a Roma, e le lettere sono una sorta di diario di viaggio.
Sono in particolare tre i temi che gli stanno più a cuore: la tradizione apostolica, cioè il portato delle fede trasmessa dagli Apostoli, insidiata dal nascere di eresie e divisioni, che Ignazio controbatte affermando apertamente l’unicità della Chiesa e il suo fondamento: “dove è Gesù Cristo”, egli afferma, “lì è la Chiesa cattolica” (Smirnesi 8,2). Agli albori della storia cristiana, egli è il primo che elabori una dottrina molto forte sul ruolo e il significato del Vescovo: “È bene per voi – scrive per esempio ai cristiani di Efeso – procedere insieme d’accordo col pensiero del Vescovo, cosa che già fate. E dopo aver raccomandato agli Smirnesi di non “intraprendere “nulla di ciò che riguarda la Chiesa senza il Vescovo” aggiunge “Lavorate insieme gli uni per gli altri, lottate insieme, correte insieme, soffrite insieme, dormite e vegliate insieme come amministratori di Dio, suoi assessori e servi. Cercate di piacere a Colui per il quale militate e dal quale ricevete la mercede. Nessuno di voi sia trovato disertore. Il vostro Battesimo rimanga come uno scudo, la fede come un elmo, la carità come una lancia, la pazienza come un’armatura” (6,1).
E Ignazio, Vescovo, pasce le pecore affidategli ribadendo la realtà della incarnazione, della morte e della risurrezione di Cristo: non una idea o un simbolo, ma concreta realtà storica e naturale: impossibile non vedere in questi temi un richiamo attualissimo ai problemi che il cristianesimo (e lui fu il primo ad adoperare questo termine) tuttora ha di fronte e vive ancora oggi, talvolta in modo drammatico.
Come certo costituisce un richiamo sorretto dall’esempio della vita vissuta anche la terza caratteristica della sua spiritualità: l’insistenza con la quale raccomanda ai suoi interlocutori, e soprattutto ai cristiani di Roma, di non usare i loro eventuali possibili contatti con la corte imperiale al fine di evitargli il martirio che lo aspetta: “è bello per me morire andando verso Gesù Cristo, piuttosto che regnare sino ai confini della terra. Cerco Lui, che è morto per me, voglio Lui, che è risorto per noi. Lasciate che io sia imitatore della Passione del mio Dio!” (ai Romani, 5/6).
Il “Teoforo” o “Illuminatore”, come pure viene chiamato, raggiunta Roma, vi subì il martirio. Fu esposto “ad bestias” durante i festeggiamenti in onore dell’imperatore Traiano, vincitore in Dacia. Aveva scritto: “Io sono frumento di Dio. Bisogna che sia macinato dai denti delle belve, affinché sia trovato puro pane di Cristo”.
“Implorando dal Signore questa «grazia di unità», e nella convinzione di presiedere alla carità di tutta la Chiesa (cfr Romani, prologo), rivolgo a voi lo stesso augurio che conclude la lettera di Ignazio ai cristiani di Tralli: «Amatevi l’un l’altro con cuore non diviso. Il mio spirito si offre in sacrificio per voi, non solo ora, ma anche quando avrà raggiunto Dio … In Cristo possiate essere trovati senza macchia». E preghiamo affinché il Signore ci aiuti a raggiungere questa unità e ad essere trovati finalmente senza macchia, perché è l’amore che purifica le anime”.
Benedetto XVI, Udienza generale, 14 marzo 2007
a cura di Alberto Hermanin