Ritengo di potere affermare senza molti dubbi che oggi, cinquant’anni dopo il Concilio Vaticano II, l’argomento maggiormente riproposto su di esso sia quello relativo al suo rapporto con la Tradizione della Chiesa, anche se è il caso di ricordare che questo stesso tema fu di accesa attualità fin dal primo dopoconcilio, e però non sempre e non da tutti affrontato con la serietà e la profondità da esso richiesta.
All’incirca la problematica può essere esemplificata in questo modo: è certo che la Chiesa del Concilio ha manifestato su varie questioni atteggiamenti e posizioni che sono stati considerati subito “nuovi” (pensiamo ad esempio alla questione ecumenica, a quella del dialogo interreligioso e, più in generale, alla posizione della Chiesa di fronte alla contemporaneità). È altrettanto vero che anche su certe questioni dogmatiche indubbiamente importanti questa stessa Chiesa si è espressa con impostazioni teologiche, linguaggio e concetti che sono apparsi non usuali nei precedenti documenti magisteriali. Ciò posto però, dobbiamo chiederci se, alla luce di queste costatazioni, abbia senso affermare che la Chiesa del Concilio abbia inteso rompere con il suo passato.
La domanda è giustificata dal dato di fatto che, dall’indomani del Concilio, questa è stata, con diversa o anche con opposta motivazione, la posizione di taluni gruppi di cattolici. Alcuni di essi, particolarmente sensibili alla integrità della Tradizione ecclesiastica, hanno accusato il Concilio di avere tradito la Tradizione, spingendosi conseguentemente fino a disconoscerne la validità magisteriale. Altri al contrario, soprattutto – ma non unicamente – quelli che partivano da posizioni critiche del rapporto di chiusura difensiva intrattenuto dalla Chiesa preconciliare con il mondo contemporaneo, si sentirono autorizzati a enfatizzare ogni “novità conciliare”, vera e presunta, spesso con deplorevole superficialità teologica e con ancor meno adeguata pratica pastorale, finendo così col dare man forte ai cosiddetti “tradizionalisti”.
Ma è proprio impossibile parlare di novità senza porre quest’ultima in rottura con il passato? Di una novità che, ad esempio, riscattando un passato entrato in ombra, ripristini una luce originaria e di quella luce costituisca nell’oggi la vera continuità?
Sappiamo quanto questo tema della “continuità” quale vera chiave interpretativa del rapporto tra Concilio Vaticano II e Tradizione della Chiesa sia stato da sempre caro al teologo Ratzinger prima e a Papa Benedetto XVI oggi.
Ebbene, un tale modello di “novità nella continuità” noi troviamo senza dubbio nella forte affermazione della Universale vocazione della Santità nella Chiesa contenuta nel capitolo V della Costituzione conciliare Lumen gentium. E ci chiediamo subito se possa esserci qualcuno disposto a negare che allora si trattò di un fatto nuovo. Nello stesso tempo ci chiediamo se possa esserci qualcuno pronto a considerare difforme dalla Tradizione della Chiesa l’affermazione di allora. Quest’ultimo dovrà onestamente osservare che fu allora il Concilio stesso a riconoscere che la sua affermazione apparteneva alla fede originaria della Chiesa:
«La Chiesa, di cui il santo sinodo sta proponendo il mistero, è creduta indefettibilmente santa. Infatti Cristo Figlio di Dio, che insieme col Padre e lo Spirito è proclamato il solo santo, ha amato la Chiesa come sua sposa, dando se stesso per lei al fine di santificarla (cf. Ef 5,25-26), e l’ha unita a sé come suo corpo e l’ha riempita del dono dello Spirito Santo, per la gloria di Dio. Perciò tutti nella Chiesa, sia che appartengano alla gerarchia sia che da essa siano pastoralmente guidati, sono chiamati alla santità» (Costituzione dogmatica sulla Chiesa, cap. V, 39).
Ci chiediamo dunque in che cosa possa consistere la novità di questa solenne affermazione, dal momento che quanto è contenuto in essa appartiene da sempre alla fede della Chiesa – basterà pensare che tra i quattro attributi della Chiesa da noi professati ogni domenica nel simbolo niceno- costantinopolitano quello della “santità” è il primo a trovarsi documentato nella letteratura cristiana, poco oltre la metà del secondo secolo. E la risposta è che non nel contenuto sta la novità bensì nel fatto stesso della sua affermazione e nella particolare modalità con cui l’affermazione è fatta.
Sottolineiamo dunque per prima cosa l’aspetto di questa modalità. Ciò che a buon diritto apparve “nuovo” al momento della promulgazione di Lumen Gentium fu la precisazione – fatta per inciso ma
voluta con forza, nella frase da me evidenziata – che alla santità sono chiamati tutti, sia che appartengano alla gerarchia sia che da essa siano pastoralmente guidati.
Perché questa precisazione, che a noi oggi può apparire pleonastica? Semplicemente perché al momento del Concilio, e già da lungo tempo, la convinzione manifestata autorevolmente da quella costituzione conciliare, che cioè a tutti i fedeli indiscriminatamente è data di fatto pari opportunità di santificazione, non era per niente scontata né presso i fedeli né presso i pastori né presso tutti i teologi.
Vigeva infatti allora la convinzione dell’esistenza di vie privilegiate alla santità, intese come forme di vita distanti dalla condizione secolare – una condizione questa considerata per se stessa ostativa del raggiungimento della perfezione evangelica. Si trattava dei cosiddetti “stati di perfezione”, ai quali erano propriamente ascritti i religiosi, i vescovi e, fino a un certo punto, i sacerdoti secolari. Non si negava certamente ai laici la possibilità della santità: una tale posizione, pure teorizzata in altri tempi, era già stata abbondantemente sconfessata da una importante letteratura teologica e spirituale – si pensi solo alla Filotea di San Francesco di Sales. Piuttosto si tendeva a considerare tale possibilità come abbastanza astratta, in ogni caso destinata a esiti di grado inferiore. Ed è risaputo che anche la predicazione correntemente indirizzata al popolo non soleva, allora (e non solo allora ahimè!), distaccarsi dai livelli minimalisti della conversione dal peccato, specialmente mortale, e del mantenimento della grazia di Dio.
Da questo clima ideologico, già in precedenza sconfessato da non pochi movimenti di opinione ecclesiale (vedi le realtà dell’Azione Cattolica francese e italiana; dei sempre più numerosi Istituti Secolari; dell’Opus Dei e infine, del più esplicitamente ed apostolicamente impegnato Movimento Pro Sanctitate), prende definitivamente le distanze il quinto capitolo della Lumen Gentium. E lo fa identifi cando la santità semplicemente come “perfezione della carità” e assegnandola come proprio compito a tutti e singoli i fedeli, non solo a prescindere dal loro personale stato di vita, ma secondo il loro stato di vita (in suo vitae ordine):
«Questa santità della Chiesa costantemente si manifesta e si deve manifestare nei frutti di grazia che lo Spirito produce nei fedeli; si esprime in varie forme presso i singoli, i quali nel loro proprio stato di vita giungono alla perfezione della carità, edificando gli altri» (ivi).
Questo nuovo clima autorevolmente imposto dal Concilio non faceva che ripristinare il clima della Chiesa dei primi secoli, allorché era assiomatico per quella catechesi che la vita dei cristiani, senza distinzione di carismi e ministeri, dovesse modellarsi su quella di Cristo e sulla sua santità.
È perciò evidente che parlare di novità su questo punto non può essere in riferimento alla Tradizione come tale – che semmai ne risulta ricondotta a nuova luce – ma solamente in riferimento a una condizione storica nella quale la convinzione circa l’universale vocazione alla santità nella Chiesa s’era attenuata, con conseguenze, forse anche gravi, sulla prassi pastorale.
Per questo i concetti qui succintamente citati si trovano di fatto riproposti con amorevole insistenza e ricchezza di risvolti applicativi per tutto il capitolo quinto – vedi, ad esempio, il punto assai notevole in cui vien fatto osservare che «dalla santità così intesa è promosso, anche nella società terrena, un tenore di vita più umano» (LG V,40) -. Si trattava di togliere di mezzo incrostazioni di pensiero, atteggiamenti di comodo e modi di dire e di fare non facilmente eliminabili.
Né, a cinquant’anni dal Concilio, si può dire che l’operazione sia stata condotta finalmente a termine
Salvatore Di Cristina
Arcivescovo di Monreale e Consulente Ecclesiastico Nazionale del Movimento Pro Sanctitate