“Gli uomini affamati hanno una festa” Eugenio Montale

APPROFONDIMENTI

 

Milioni di affamati chiedono un solo poema: cibo ricostituente. Essi non possono riceverlo. Devono guadagnarselo. E possono guadagnarselo solo con il sudore della fronte. (Gandhi)

La fame è sempre un argomento scomodo, e in un certo senso imbarazzante, per chi forse non sa cosa significhi letteralmente morire di fame e, pur lavorando, non è assillato dalla preoccupazione di riuscire, con quanto guadagnato con il sudore della fronte, a comprare il cibo per sé e per i propri cari. Forse questa è l’esperienza che possono fare alcuni, ma certo per molte persone non è un’esperienza immediata.

Ancora più sconcertante è quando usiamo il termine fame per esprimere un altro tipo di bisogno: quello interiore, la fame di Dio, di verità, di formazione delle coscienze. Non avendo mai provato la fame del corpo parliamo di fame dello spirito senza alcun riferimento esperienziale che ci renda consapevoli della crudezza della fame e di ciò che essa provoca.

Sicuramente la fame porta debolezza, mancanza di forze, passività, astenia e atonicità del corpo. Da questi elementi corporei ne scaturiscono poi altri più psicologici: chiusura, incapacità di espressione, mancanza di inventiva, passività interiore, sfiducia, disperazione. Gli affamati del mondo, pur trovandosi in queste condizioni, sono disposti però a lavorare sino allo sfinimento ulteriore per portare una ciotola di riso o un pezzo di pane a casa: solo il minimo per evitare la morte immediata.

Nel dire queste cose provo intanto una grande vergogna per le sicurezze di cui ancora godo e di cui non ringrazio abbastanza la bontà di Dio e dell’Istituto a cui appartengo – milioni di affamati mi circondano mentre io posso ancora mangiare -, per la serietà che mi è richiesta nel compiere il mio servizio che non sempre svolgo così come i poveri – essi lavorano umilmente e senza recriminazioni o diritti – e che lascio scorrere tra mugugni e malcontenti, forse tra tentazioni di potere e onnipotenza o vittimismi, che in certi casi sono proprio deliri. E non è forse così per tutti noi?

Provo anche un certo imbarazzo pensando alle tante volte che parlo – parliamo – della fame di Dio. Mi chiedo: “Sappiamo di cosa parliamo? Proviamo veramente questa fame?”. Sentiamo cioè tutto il vuoto, il dolore, l’abbattimento interiore e fisico, il bisogno vitale di Dio? L’assenza di Dio dall’orizzonte umano comincia ad essere considerato uno, se non il più grande, dei fattori di sofferenza che destabilizzano la società.

La fame di Dio ci fa venire i crampi al cuore e anche allo stomaco? Perché la fame di Dio dovrebbe essere la più terribile e dolorosa, tanto da coinvolgere tutto di noi anche la nostra carnalità! E sentiamo sul serio l’ansia e il dolore di non riuscire a sfamare i nostri fratelli – a partire da quelli più prossimi che ci vivono accanto? Viviamo nel terrore di vederci e vederli morire di inedia spirituale? Quanto questa sensazione di fame la sentiamo viva per le nostre famiglie, per le nostre comunità, per il Movimento Pro Sanctitate, per la Chiesa?

Corriamo il rischio che ci capiti quanto riferisce il profeta Isaia: Avverrà come quando un affamato sogna di mangiare, ma si sveglia con lo stomaco vuoto, e come quando un assetato sogna di bere, ma si sveglia stanco e con la gola riarsa. (Is 29, 8)

Tutto potrebbe essere paragonato ad un sogno: la fame e la sazietà; anzi ad una finzione: crediamo di avere una certa fame, quella di Dio, e sogniamo di saziarci con il nostro modo di vivere l’adesione a Lui, ma al risveglio il nostro stomaco è vuoto perché la nostra fame non partiva dalla nostra carne e dalla nostra anima. Quale la ragione? Una incredibile sazietà non riconosciuta, quella di noi stessi.

La tentazione può rimanere accucciata alla porta del nostro cuore quando pensiamo che la fame di Dio è dei fratelli, mentre noi crediamo di aver capito e di aver trovato il cibo e così non ci mettiamo in fila con tutti gli affamati della terra, aspettando il nostro turno perché arrivi anche per noi il pane.

Il primo passo da fare, quindi, è quello di riconoscerci veramente affamati, di camminare con tutti coloro che hanno fame di verità, di giustizia, di amore, di preghiera, perché quando si è assaggiato, anche per un solo momento, il pane di Dio, si ha fame per sempre.

Il secondo passo è quello di guadagnarci questo ‘pane’ con il sudore della fronte, attraverso una vita normalmente vissuta nei suoi imprevisti e problemi, nelle sue prove e nelle luci, con la stessa quotidiana umiltà del povero che non si scandalizza della fatica di vivere né pensa di dover o poter vivere diversamente.

Dacci oggi il nostro pane quotidiano preghiamo più volte al giorno, cioè: dacci il Tuo pane divino, la Tua vita, il Tuo amore e noi lo mangeremo in ogni ora del nostro giorno, nelle Croci che ci vorrai donare, nelle prove e nelle gioie, nelle fatiche e nel dono; lo mangeremo nelle malattie e nella povertà di tutto; lo mangeremo rinunciando ai nostri progetti perché non abbiamo le forze e lasciandoci guidare a progetti nuovi e inusuali a misura della forza che ci viene solo da Te; lo mangeremo ringraziando per ogni cosa, con letizia di cuore e semplicità; lo mangeremo condividendolo con i fratelli e le sorelle che come noi hanno fame dello stesso pane; sarà il pane della vita e la vita diventata pane e la fame di Te ci renderà felici e disposti a perdere tutto per conquistarti; così santificheremo il Tuo nome e il Tuo regno verrà tra noi e saremo tuoi figli, santi e portatori di santità nel mondo, saremo il Tuo pane.

C’è una bellissima preghiera del Servo di Dio Guglielmo Giaquinta che ha un titolo molto significativo: Fame. È semplice, forse ingenua, ma ha una grande freschezza interiore. In essa possono ritrovarsi tutti e possiamo ritrovare anche i tanti nostri compagni di viaggio, quanti camminano con noi in questa stessa fame di Dio:

Fratello ho anch’io un’anima che piange senza lacrime

che urla anche se tace che pare rida, e muore.

La mia anima ha fame ma non voglio più ghiande;

me ne sono saziato son rimasto deluso.

Non ho fame di pane non ho sete di acqua

brucio solo d’amore ho bisogno di Lui.

O Dio dammi il tuo pane perché muoio di fame

se tu non mi aiuti nessuno può salvarmi.

Potremmo fermarci ad ogni singola frase, forse ci sentiamo vivere in quest’anima che l’autore descrive; essa ha bisogno di gridare la verità di sé, la stanchezza di ciò che non può colmarla e la lascia solo vuota – le illusioni della vita che nascondono le nostre fragilità! – e, quasi, di urlare a Dio la sua fame: O Dio dammi il tuo pane!

Pane! Parola scontata nel nostro vocabolario di ogni giorno, ma parola essenziale, e non solo parola ma realtà. Pane è ciò che nutre, sfama, conserva in vita, pane è la forma scelta da Dio per restare un abitante della terra, per donarci la condivisione, per renderci fratelli.

Questo pane, che subito identifichiamo con il pane eucaristico, ha per noi diversi significati. D’altra parte, chi di noi non sente di voler fare comunione con il Corpo di Gesù? E, certamente, è Lui il solo Pane che colma, sazia, dona la felicità, riempie ogni bisogno dell’anima … ma esso si spezza e concretizza in ciò che rende reale, visibile – possiamo dire incarnata – e credibile, la nostra vita.

È pane, per noi la Vita e la Vocazione che ci è stata donata – famiglia, vita consacrata, realtà ecclesiale, impegno sociale – il cammino di santificazione, la comunione, l’unità -, è pane la  Redenzione del mondo e anche la semplice felicità, quella felicità che dobbiamo reciprocamente donarci e riconoscere – aiutandoci a farlo se diventa necessario – nella chiamata ricevuta.

Essere affamati dello stesso pane – e la domanda su come questo si realizzi in noi – ci pone nella condizione di capire quanto, in realtà, i nostri cuori siano orientati nella medesima direzione. Mi spiego. È chiaro che ciascuno di noi comprende quanto sia importante camminare insieme verso la stessa concretizzazione del regno di Dio, ma è necessario saper guardare quanto questo desiderio sia frammentato e quanto ogni frammento possa tendere ad avere vita propria o a ricoprire il ruolo del tutto.

Come umanità, come Chiesa, siamo una realtà unica che, però, può vivere – e certamente vive – al suo interno, diverse divisioni, così come un pane può essere unico ma spezzato sulla tavola, cioè pezzi dello stesso pane sono sparsi sulla mensa.

Gesù è un pane che si spezza, potremmo obiettare. È vero, ma il Suo spezzarsi genera il processo inverso: l’unità, la comunione! I frammenti – che sono le nostre vite, le nostre anime – si raccolgono, convergono, divengono ‘uno’ e, trasformati in un unico pane sono pronti, a loro volta, a spezzarsi per sfamare e riportare alla comunione con Dio quanti sono spezzati e affamati.

Dobbiamo allora percorrere insieme questo processo: passare dalla frammentarietà – quasi una terra di esilio per noi – all’unità per spezzarci, come buon pane eucaristico, nelle vite dei fratelli.

È un processo irreversibile di santificazione!

Facciamo nostra l’esperienza del poeta Gibran: Cosa può fare un figlio in esilio per la sua affamata gente, e quale valore per loro può avere il lamento di un poeta assente? S’io fossi una spiga di grano nella terra del mio paese, il fanciullo affamato mi raccoglierebbe e allontanerebbe dalla sua anima, grazie ai miei chicchi, la mano della Morte. (Kahlil Gibran)

Se permaniamo nell’esilio siamo separati da ogni possibilità di nutrirci dello stesso pane e di sfamare i fratelli.

Ma cosa rappresenta l’esilio? Le visioni personali che non lasciano spazio al confronto, la percezione di possedere la verità della storia, i gusti e le attitudini personali che diventano, a nostro parere, l’espressione più esatta dello stile di vita da assumere, l’egoismo che ci chiude ad ogni altruistica comprensione, la pretesa di essere amati secondo i nostri canoni senza accettare il modo che ha l’altro di amare e di donarci amore, le chiusure di cuore, l’esercizio del potere, in certi casi uno scadimento nell’educazione, l’arbitrio, il permanere nelle presunte ferite ricevute, il non saper pensare mai in positivo ma solo in negativo… Mi fermo qui!

Questo elenco può sembrare molto crudele, ma credo che non dobbiamo temere la verità della nostra fragile natura. Nemmeno Dio la teme, tanto che continua a scommettere su di noi e ci consegna un progetto grandioso, straordinario.

Noi cristiani non possiamo essere poeti assenti, dobbiamo partire dalla verità di noi per aiutare, nell’umiltà, gli altri a trovare ogni giorno la gioia del Vangelo e a provare la sola fame possibile che porta vita, quella del pane buono di Dio. Dobbiamo essere la spiga di grano nella terra del mondo, per questo popolo affamato che attende da noi speranza di vita.

Questo significa puntare a sfamarci del pane della santità, cercarlo, ricomporlo in unità, spezzarlo tra noi, condividerlo con i fratelli. Miracolosamente esso si moltiplicherà tra le nostre mani.

Diventa, quindi, necessario leggere insieme quelle che possono essere le diverse frammentazioni che viviamo nelle nostre relazioni, individuarle, pian piano sanarle, perché la fame che abbiamo dello stesso pane venga saziata.

Ci sentiamo sollecitati ancora da una poesia / canzone di Guglielmo Giaquinta:

Cosa dai al tuo fratello? Gli do un pezzo di pane!

Ma egli ha ancora fame. Cosa dai al tuo fratello?

Una giacca d’inverno! Ma egli ancora ha freddo.

Cosa dai al tuo fratello? Un saluto d’augurio!

Ma egli è ancora triste. Cosa manca al tuo fratello?

Cosa devi tu dargli? Ha bisogno d’amore,

a lui manca la gioia, sente il vuoto di Dio:

dagli tu queste cose.

Spesso, forse troppo spesso, le persone che ci vivono accanto, le nostre famiglie, ricevono tante cose da noi, anche tante attenzioni, ma poco ricevono Dio, non parlo del discorso su Dio, ma la testimonianza della nostra immersione in Lui che ci trasforma di giorno in giorno, la gioia luminosa di una appartenenza che dilata il cuore e la mente.

In una bellissima poesia Montale scrive:

Il mondo esiste… Uno stupore arresta/ il cuore che ai vaganti incubi cede, /messaggeri del vespero: e non crede/ che gli uomini affamati hanno una festa. (Montale, da “Ossi di seppia”, 1928)

Siamo tutti uomini affamati, ma l’augurio è che possiamo riconoscere di avere fame di uno stesso unico pane, affamati del pane che è Gesù, e allora nei nostri giorni feriali sapremo ritrovare e gustare il profumo e i colori della festa.

Loredana Reitano – Responsabile Generale dell’Istituto Secolare delle Oblate Apostoliche Pro Sanctitate

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