Nasce intorno al 1235 a Viterbo, città in quel periodo duramente provata dagli assedi degli eserciti del Papa perché l’Imperatore Federico II era impegnato ad ottenere il controllo di Viterbo a discapito dello Stato della Chiesa. Di Rosa bambina non sappiamo nulla; alcuni agiografi del sec. XIX, quasi a voler individuare una affinità carismatica con Giovanna D’Arco, hanno voluto identificarla nell’anonima “fanciulla di nove anni”, descritta da un cronista contemporaneo, che nel 1243 ferita al braccio, mentre porta pietre ai combattenti guelfi, si estrae con i denti la freccia e continua nella difesa di Viterbo assediata dalle truppe imperiali.
Il più antico e scarno resoconto biografico – la “Vita I” -, probabilmente trascrizione dei racconti orali della stessa madre della Santa, inizia narrando che: «Mentre la predetta vergine era gravemente inferma, tanto che nessuno dei presenti le rivolgeva più la parola, cominciò a vedere le anime dei morti e a riconoscere anche quelle che non aveva mai visto perché morte più di trenta o venti anni prima che lei nascesse; e chiamava per nome i buoni e i cattivi. E ciò fece dal martedì fino al mercoledì. Nel giorno poi di mercoledì, durante la notte, mentre la madre della beata vergine e molte altre donne l’assistevano, e credevano che stesse per emettere lo spirito… la beata vergine disse a sua madre “Madre voglio mangiare, perché domani sarà la vigilia del beato Giovanni Battista”. E d’improvviso, alzatasi, con grande gioia lodava il Signore…». Era il mercoledì 22 giugno dell’anno 1250; ha inizio così la “vita pubblica” di Rosa, forse non ancora diciottenne, che morirà appena sette mesi dopo: il 6 marzo del 1251. «E subito si distese nuda per terra in forma di croce piangendo e dicendo a sua madre: Madre rinuncio a tutti i beni e delizie di questo mondo…» e chiedendo che le venissero tagliati i capelli «come ad un chierico» e vestita del saio e cinta
da una corda. Ciò farà presumere impropriamente l’appartenenza di Rosa al Terzo Ordine Francescano, ma saio e cordone per i contemporanei di Rosa erano soprattutto l’abito “della penitenza” cioè di quei fedeli laici che si sottoponevano volontariamente alle medesime penitenze con cui l’autorità ecclesiastica sottometteva i pubblici peccatori che chiedevano di riconciliarsi con la Chiesa. Tuttavia l’ispirazione francescana in Rosa deve essere stata ben presente.
«Piangeva con grande devozione, si fece portare in chiesa e prostrata davanti alla Croce diceva piangendo: “Padre, chi ti ha crocifisso?” E mentre così piangeva si alzò un certo signor G. che trascinandola fuori dalla chiesa la riportò a casa sua»: le sue pubbliche manifestazioni di devozione non sono quindi comprese e tantomeno tollerate. Ed infatti: «Mentre la beata vergine Rosa andava per la città di Viterbo assiduamente, con la croce in mano lodando il nome del Signore Nostro Gesù Cristo e della beatissima Vergine Maria, un certo uomo che allora era a capo della città di Viterbo per conto dell’imperatore Federico, pregato da alcuni eretici che allora vivevano pubblicamente in città…» condannò Rosa e la sua famiglia all’esilio. Nel processo di canonizzazione celebratosi a metà del sec. XV, sotto il pontificato di Callisto III, si parla esplicitamente della predicazione antiereticale da parte di Rosa in una Viterbo in cui molti esponenti della nobiltà ghibellina si erano convertiti alla religione catara. «Il padre della detta vergine andò immediatamente dal Podestà e lo pregò dicendo: “Signore abbi pietà di me e della mia famiglia, perché se usciremo di città con questo tempo moriremo tutti a causa della neve che ricopre monti e valli”. E il Podestà gli rispose: “Per questo vi caccio fuori, affinché moriate tutti”. Ed egli tornato a casa, con tutta la sua famiglia e con le sue cose uscì dalla città di Viterbo. E sempre nevicava». Dopo una giornata di viaggio giungono a Soriano del Cimino. Ignoriamo quanto tempo si trattennero prima di raggiungere Vitorchiano. Qui si interrompe bruscamente la “Vita I”. Nella antica biografia scritta nel Quattrocento – detta la “Vita II”- si racconta di miracolose guarigioni operate in Vitorchiano per intercessione di Rosa e dello scontro con «una perfida eretica che ogni giorno latrava cose orrende contro la fede cattolica e che si opponeva alle parole della vergine Rosa». La Santa non riuscendo a vincerla con ragionamenti sfidò l’eretica al giudizio di Dio: la prova del fuoco, dalla quale ne uscì «priva di ustioni nel vestito e nel corpo». La fama popolare di tale episodio è riscontrabile dal fatto di essere stato dipinto nel 1358, sulla cassa che conteneva il corpo incorrotto della Santa, con la didascalia: “Quomodo Beata Rosa misit se in ignem et convertit hereticam”.
Rosa torna a Viterbo dove pare abbia fatto inutilmente richiesta di ammissione tra le Clarisse del monastero vicino alla sua abitazione. Muore il 6 marzo, viene sepolta presso la chiesa parrocchiale di S. Maria in Poggio ma tanto grande è la fama di santità che le autorità cittadine chiedono al Papa di aprire il processo di canonizzazione. È giunta fino a noi la Bolla di risposta del novembre 1252 con cui Innocenzo IV autorizza ufficialmente il processo, ma i viterbesi – diciotto mesi dopo la morte di Rosa – il 4 settembre 1252 hanno di già esumato la Santa ritrovata bella e flessibile come al momento della morte e vedendo in ciò la prova bastante della sua santità.
Papa Alessandro IV nel 1458 verrà personalmente a Viterbo procedendo alla solenne traslazione della Santa, portata a spalla da quattro cardinali, all’interno del monastero delle Clarisse, che fino ad oggi la custodiscono; avverando così la profezia che la Santa aveva fatto alle medesime Clarisse: «Ciò che voi disprezzate da viva sarete contente di avere da morta, ed infatti l’avrete». Nel 1922 papa Benedetto XV dichiarava “Santa Rosa da Viterbo” patrona della “Gioventù Femminile di Azione Cattolica” assieme a Sant’Agnese e Santa Giovanna d’Arco. Nel 1952 è proclamata patrona della Gioventù femminile francescana.