Daniele Comboni nasce a Limone sul Garda (Brescia) il 15 marzo 1831, in una famiglia di contadini al servizio di un ricco signore della zona. Daniele è il quarto di otto figli, morti quasi tutti in tenera età; papà Luigi amava la musica e condivideva con la sua sposa Domenica una vita spirituale semplice e intensa. Assiduo al catechismo, Daniele era anche chierichetto.
La povertà della famiglia spinge Daniele a lasciare il paese per andare a scuola a Verona, presso l’Istituto fondato dal Sacerdote don Nicola Mazza. Da lui impara l’amore per l’Africa e per le missioni. Già adolescente decide di diventare sacerdote e nel 1849 giura di dedicare tutta la sua vita all’Africa sub-sahariana. È ordinato sacerdote il 31 dicembre 1854 dal vescovo di Trento, il beato Giovanni Nepomuceno de Tschiderer. Nel 1857 parte per la prima volta per l’Africa centrale, odierno Sudan. Rientra in Italia nel 1859 a causa delle insistenti febbri malariche, continua la sua opera a favore dell’Africa e sceglie come suo motto O Nigrizia o morte.
Nel 1864, in preghiera sulla tomba di San Pietro a Roma, Comboni riceve una illuminazione che lo porta ad elaborare il suo “Piano per la rigenerazione dell’Africa”: «Salvare l’Africa con l’Africa», frutto della sua grande fiducia nelle capacità umane e religiose dei popoli Africani.
L’esperienza del deserto africano ha segnato la vita di Daniele: la vastità e l’aspetto orrido, ma anche il silenzio e la solitudine, nella continua ricerca di Dio e del suo volto negli uomini. Un cammino anche interiore contrassegnato dalla purificazione, dall’aridità, dalla disponibilità solitaria, dal sacrificio che dà vita. Dall’autunno 1864 al giugno 1865 compie un viaggio di animazione missionaria in Europa, per denunciare le piaghe dell’Africa, soprattutto lo schiavismo e per raccogliere fondi che trova abbondanti a Colonia. Votato alla “Nigrizia”, ne diventa la voce che denuncia all’Europa le sue piaghe, a partire dallo schiavismo, proibito ufficialmente, ma in pratica trionfante. Quest’uomo che sarà poi vescovo e vicario apostolico dell’Africa centrale, vive un duro abbandono, finché il sostegno del suo vescovo, Luigi di Canossa, gli consente di tornare in Africa nel 1867, con una trentina di persone, fra cui tre padri Camilliani e tre suore francesi, aiuti preziosi per i malati. Nasce al Cairo il campo-base per il balzo verso Sud. Nascono le scuole. E proprio lì, nel 1869, molti personaggi venuti all’inaugurazione del Canale di Suez scoprono la prima novità di Comboni: non solo ragazzi neri che studiano, ma maestre nere che insegnano. Inaudito. Ma lui l’aveva detto: “L’Africa si deve salvare con l’Africa”. Il 1º giugno 1867 fonda un istituto di missionari – i Missionari Comboniani del Cuore di Gesù – e nel 1872 le Suore Missionarie Pie Madri della Nigrizia. Nello stesso anno dà vita ad una rivista: la Nigrizia.
Come teologo del Vescovo di Verona, nel 1870 partecipa al Concilio Vaticano I facendo sottoscrivere a 70 Vescovi una petizione a favore dell’evangelizzazione dell’Africa Centrale (Postulatum pro Nigris Africæ Centralis).
Nel 1872 Papa Pio IX decide di affidare ai Comboniani la missione in Africa centrale e il 31 luglio 1877 Comboni è nominato vescovo di quella zona nonché Vicario Apostolico dell’Africa Centrale. Riceve l’ordinazione episcopale il 12 agosto 1877. Nel 1880 intraprende il suo ultimo viaggio in Africa.
Incontra numerose difficoltà, perfino la calunnia del suo confessore. Ad ottobre 1881, amareggiato e provato dalle malattie, muore a Khartoum nella casa circondato dalla sua gente. Ha 50 anni.
È beatificato (17 marzo 1996) e canonizzato (5 ottobre 2003) da Giovanni Paolo II in San Pietro.
Dalle Lettere
“Essendo la preghiera il mezzo più sicuro e infallibile per riuscire felicemente nelle Opere di Dio, anche le più difficili e scabrose, ho sollecitato a calde istanze preghiere quotidiane e fervidissime da un gran numero di Vescovi e dai più rispettabili Istituti delle cinque parti del mondo…”
“La poca confidenza in Dio è comune a quasi tutte le anime buone e anche di molta orazione, le quali hanno molta confidenza in Dio sulle labbra e a parole, ma poca o nessuna quando Dio le mette alla prova, e fa loro mancare talvolta ciò che vogliono… dunque pregare e aver fede; pregare non con le parole, ma col fuoco della fede e della carità. Così si piantò l’opera africana…”
“Una missione sì ardua e laboriosa come la nostra non può vivere di patina e di soggetti dal collo storto, pieni di egoismo e di se stessi, che non curano come si deve la salute e conversione delle anime. Bisogna accenderli di carità, che abbia la sua sorgente da Dio e dall’amore di Cristo; e quando si ama davvero Cristo, allora sono dolcezze le privazioni, i patimenti, il martirio”.